Notte di guardia. Radiografie del torace, radiografie dell’addome.
Poi Tac addome, perché il chirurgo non si fida del mio referto radiografico: con tutto quello che negli ultimi periodi gli dettaglio, peraltro. E solo per confermare quel che gli avevo già detto dal radiogramma, ossia che il paziente non ha nulla. Forse un giorno lo capirà, che si deve fidare; e che potremmo risparmiarci un bel pacco esami inutili.
Quindi un vecchietto con il femore rotto, poco spreco di energie mentali.
Poi ecografia addome: una ragazza che ha bisogno di attenzioni, più che di ultrasuoni. Ma io faccio il radiologo, mica lo psichiatra, e mi fermo qui. Sana come un pesce, se non per una solitudine che è peggio di molte altre cose.
Quindi la calma, almeno per un po’. Atmosfera più rada, silenzio improvviso. Mi arrischio a fare il letto, preciso e ordinato come alla naja. Sembra davvero che le acque si siano calmate, mi sdraio con un articolo. Noioso.
Mare agitato, la barca beccheggia, mi vien da vomitare, non trovo la bussola, deve essere caduta per terra ma non riesco a chinarmi senza stare male, la vedo, mi scivola,
Telefono. Sospetta embolia polmonare. Cheppalle. Andiamo, la signora è già nel tubo, passa in fretta, non c’è un bel nulla. Cheppalle di nuovo. Forse il letto sarà ancora caldo. Speriamo. Riproviamo. Speriamo che abbiano finito tutti di tormentarmi.
Vedo la stazione, di lontano. Devo correre, il mio treno sta partendo, c’è una nebbia sottile che si sta alzando ma corro, corro e non arrivo mai, e l’orologio va avanti, il tempo passa, io non arrivo al mio treno ma sento che mi sta aspettando, non posso far aspettare tutti, ora è giorno, la nebbia si è alzata e sono stanco di correre, ma lo devo fare, so che non c’è alternativa, devo, devo,
Certo che faccio fatica. Sono le quattro e c’è un incidente stradale: mi alzo innervosito e infreddolito, mi ero scoperto nel sonno, verrebbe da chiedere cosa ci faccia la gente in macchina alle quattro del mattino e quasi mi viene fuori una parolaccia; poi vedo questo povero cristo, aghi nel braccio, nel torace, tubo in gola. Il cardiochirurgo mi pressa: mediastino allargato, facciamola pure questa angiotac. E, come volevasi dimostrare, l’aorta è rotta.
Con che diritto mi lamento io, che sono qui tutto intero, mi vergogno di averlo fatto, e ho pure dormito un’oretta, forse, qui e là, anche se sono stanco, stordito, mi svegliano all’improvviso e chiedono risposte precise in pochi secondi di esame, è bella l’urgenza, mi piace, ma un conto è il giorno, quando sei tonico e alla ricerca del caso interessante, un conto è la notte, dura, un continuo passaggio da veglia a sonno agitato a veglia agitata, ti gratti gli occhi disperatamente come se potessero farti vedere meglio, poi ti metti giù e mica il sonno arriva a comando, e appena riesci a mollare i nervi, ecco, di nuovo il maledetto telefono. Sembra facile. Sono le sei e mezza, io ci riprovo. Letto freddo, ormai.
Finalmente al mare, che bel sole, metto la crema ai miei bambini, poi facciamo un enorme castello circondato da un fossato, e mettiamo l’acqua del mare nel fossato, e ci scappa dentro un pesciolino, e i miei bambini ridono come pazzi, si sbellicano felici, poi ci buttiamo nell’acqua, è calda, perfetta, rilassante, ci spruzziamo ridendo, ci tuffiamo con la testa sotto e ci guardiamo da sotto,
Sveglia. Sono le sette e mezza. L’avevo puntata io. E’ quasi finita, e mi sento riposato come dopo una notte di 12 ore di sonno. Meno male che l’inconscio sa colmare le nostre mancanze così bene.