Nel 1990 Totò Cotugno partecipò a uno dei suoi innumerevoli festival di Sanremo. La canzone in gara si intitolava “Gli amori”: un polpettone melodico in pieno stile italiano anni ‘80, con argomentazioni generiche sul sentimento amoroso e sulle coppie a cui tocca in sorte, costruito con grande accuratezza per un festival che il povero Totò non avrebbe mai potuto vincere perché il nome del vincitore era ho scritto nelle stelle (per la cronaca, quell’anno i vincitori furono i Pooh con “Uomini soli”). Tuttavia “Gli amori” era degna di una platea che, nella stragrande maggioranza dei casi, ha punito canzoni straordinarie e premiato quelle ordinarie: e infatti Toto arrivò secondo, come nella stragrande maggioranza delle sue partecipazioni al festival, proprio in virtù dell’ordinarietà della sua canzone.
L’ordinarietà di cui parlo è testimoniata dai seguenti versi di esordio:
Accesi, spenti e stupidi speciali / Due consonanti perse in tre vocali / Son loro che ci aiutano a non sentirci soli / Perciò sono importanti / E li chiamiamo amori
Nel leggere i quali a Dante, uno che l’amore lo aveva trattato seriamente e peraltro in endecasillabi con la rima incatenata, quindi con una certa complessità di fondo che sfugge al cantautore nostrano, sarebbero tremate le ginocchia: forse a quel punto l’unico dubbio, per il Sommo, che tra le altre cose (per chi non lo sapesse) era il paroliere dei migliori musicisti della Firenze del 1300, sarebbe stato a quale girone dell’Inferno assegnare il buon Toto.
Ma Toto, da vecchio lupo del palcoscenico, aveva l’asso nella manica. L’edizione del 1990 fu innovativa per due motivi:
1) finalmente si rivide l’orchestra all’Ariston, ponendo fine allo spettacolo triste e indecoroso dei cantanti alle prese con la base musicale su un palco deserto che sembrava quella della festa del santo patrono di un paesino dell’agro campano;
2) riportò in auge la formula del cantante straniero abbinato a quello italiano, che negli anni ’60 aveva funzionato a meraviglia. E qui il colpo da maestro di Toto, o dei suoi manager: il cantante straniero che avrebbe cantato la sua canzone era nientepopodimeno che Ray Charles, all’epoca già una leggenda vivente del rhythm and blues e del soul. Ray Charles prese la canzone di Toto Cotugno, ne mantenne gli accordi e la struttura e la trasformò in un capolavoro, peraltro mai inciso, che ricevette da parte del pubblico finalmente esaltato dell’Ariston parecchi minuti di ovazione.
Qui c’è la canzone cantata da Toto Cotugno:
Qui c’è “Good love gone bad”, la versione inglese interpretata da Ray Charles.
Anche se non siete fini intenditori musicali ve ne siete già accorti senza grossa fatica: la canzone è la stessa. Gli accordi di Toto Cotugno sono accuratamente conservati: magari in mezzo Ray Charles ci ha piazzato qualche quinta o settima aumentata, ma diciamo che la struttura musicale è la stessa. Eppure “Gli amori” di Cotugno è ordinaria, a tratti banale, dà l’idea di una canzone già ascoltata in passato decine di altre volte (come in effetti è), mentre quella di Ray Charles è piena di sonorità meravigliose e la ascolteresti trenta volte di seguito senza stancarti. Cosa è successo? Cosa rende la versione di Ray Charles così straordinaria rispetto alla versione originale?
Semplice, cari miei: l’arrangiamento. L’arrangiamento, come recita il vocabolario della lingua italiana, è “la trascrizione che si fa di un brano musicale adattandolo a strumenti o complessi diversi da quelli per cui originariamente era stato composto”. Il risultato finale di un arrangiamento è funzione di chi arrangia la canzone e di chi successivamente la canta, ammesso che arrangiatore e cantante non siano la stessa persona, e spesso conduce a versioni della canzone quasi irriconoscibili.
Provate a pensare a “Highway to hell” degli AC/DC cantata da Carla Bruni e inorridite pure senza ritegno. Allo stesso modo, provate a pensare a “Felicità” di Albano e Romina strillata in versione hard rock da tale Danny Metal, l’incrocio tra un pilone di rugby e uno scaricatore di porto scozzese, e inorridite alla stessa maniera.
Cosa voglio dirvi con tutta questa solfa? Che la differenza, nella vita, più che il talento puro e semplice la fa l’arrangiamento.
Se siete geni assoluti non c’è nulla da dire: siete rari come quadrifogli e viaggiate su un altro pianeta, in altre dimensioni, dentro spazi siderali. Le persone comuni nemmeno riescono nemmeno a vedervi e al massimo si accorgono della scia luminosa che lasciate in volo. È difficile anche solo considerarvi fonte di ispirazione, figuriamoci cercare di emularvi.
Se invece siete pieni di talento musicale ma incapaci ad arrangiare una canzone, il vostro talento sarà sprecato e finirete nel dimenticatoio assai in fretta, sviluppando la tipica frustrazione che attanaglia i mezzi geni, in genere incompresi, che non di rado nella vita finiscono assai male: droga, alcool e forse anche una morte precoce e drammatica che in parte, ma solo se una volta tanto sarete fortunati, riscatterà le vostre frustrazioni.
Potreste, al contrario, essere dei cani come musicisti ma saper arrangiare decentemente le vostre pessime note, e quindi vendere bene il prodotto che avete composto: il mondo è pieno zeppo di millantatori di questo tipo, il cui unico talento è saper convincere il prossimo delle proprie (inesistenti) qualità e magari costruircisi su una rispettabile carriera. Basta avere sufficiente faccia tosta, una buona parlantina e magari tendere alla sovrastima di sé: sapeste quanti ce ne sono nel mio lavoro, e quanti ne ho già incontrati sulla mia strada.
Infine, potreste non appartenere a nessuna delle due categorie precedenti e non saper fare nulla, né comporre né arrangiare: in quel caso siete destinati a quella vita di quieta disperazione che, come ci insegna Thoreau, è la triste normalità della maggioranza degli uomini e delle donne. Non è colpa vostra, sappiatelo, e siate consci del fatto che voi almeno conservate la dignità che manca ai millantatori di cui sopra: il Padreterno vi giudicherà sicuramente con maggiore benevolenza di quelli, quindi ce l’avete anche voi il vostro piccolo asso nella manica. Proprio come Toto Cotugno.