E figlia, figlia, non voglio che tu sia felice

di | 19 Marzo 2016

Non ho mai scritto nulla per la festa del papà: sempre considerata una ricorrenza commerciale, di quelle con cui si prova maldestramente a rimettere in moto l’economia o a buggerare un prossimo che, a quanto pare, ha sempre più bisogno di sentirsi buggerato. Però oggi ho ricevuto una letterina molto colorata, e su una delle pagine che la componevano c’era scritto:  Se un film mi fa paura mio papà mi dice che è tutto finto, e la paura non c’è più. E allora ho pensato che forse serve a questo, un padre, a toglierti la paura quando cominci ad averla e a esserne paralizzato; e non sto parlando solo di un intervento attivo, di una parola o un abbraccio detti e fatti al momento giusto, ma anche di una memoria in parte genetica e in parte empirica, legata all’esperienza quotidiana.

E allora si parte dal proprio padre biologico: il mio è stato, ed è ancora, parecchio impegnativo, uno di quelli che volente o nolente alza l’asticella del salto in alto e ti stimola a superare il tuo record personale. Ricordandoti, in qualunque momento della tua esistenza, che una parte profonda e nascosta del nostro cuore rimane ferma con la memoria a quando eri bambino e sedevi sulle sue gambe forti, o giocavi a scacchi con lui. Perché non si esaurisce mai, a quanto pare, il bisogno congenito di sederti accanto a lui davanti al fuoco del camino e chiedergli, in una fredda sera d’inverno: Babbo, allora, sei contento di me?

Poi ci sono gli altri padri, e uno di questo è il mio nonno materno. L’uomo dal cuore più enorme che io abbia mai conosciuto, capace di imprese epiche per facilitare la vita di perfetti sconosciuti dai quali non avrebbe mai ricevuto nulla in cambio. L’uomo che mi portava in bicicletta, seduto su un seggiolino molto artigianale, mentre mi spiegava i misteri delle stazioni ferroviarie o mi insegnava fischiettando le arie da opera di Verdi e Puccini.

Un altro papà è stato il maestro delle elementari, quello che chiamavo professore anche se lui storceva il naso e diceva di essere solo un semplice maestro di campagna. Uno dei pochi che aveva capito i miei drammi interiori dell’epoca e, invece di riportarmi su quella che secondo l’opinione comune era la cruda realtà dei fatti, mi lasciò libero di esprimermi come desideravo. Se scrivo così tanto, mi dispiace per voi, una buona parte del merito, o della colpa, è proprio suo.

Ho avuto anche padri radiologici: il primo, durante gli anni della specialità, è stato il professor Scutellari. Anche lui era un uomo impegnativo, e anche lui tendeva a spostare la mia asticella sempre più in alto: non potrò mai smettere di ringraziarlo non tanto per le nozioni tecniche che ancora adesso fanno parte del mio bagaglio personale di radiologo, ma soprattutto per il metodo con cui affrontava le sfide del nostro mestiere e per la passione che intravedevo nei suoi occhi quando infilava nel cassetto della sua scrivania una radiografia particolarmente interessante che sarebbe finita nel suo sterminato archivio personale: che adesso chissà se c’è ancora, e nelle mani di chi finirà quando sarà il momento. Nella risposta alla mia ultima lettera, che gli ho scritto dopo anni di silenzio, c’era la meravigliata soddisfazione che un allievo si ricordasse ancora di lui. Se solo sapesse.

L’altro padre è stato il mio primo primario: di lui ho già parlato con dovizia di particolari qui, per chi abbia voglia di (ri)leggere, e mi sembra superfluo ripetermi.

Tutto questo per dire una sola cosa: non dimenticate mai di dire grazie ai vostri padri, vivi o meno che siano. E non aspettate una festività commerciale del cavolo, per farlo. Fatelo subito, fatelo ora. E poi godetevi le loro espressioni stupite, tipiche di chi fa il bene e poi se lo dimentica (come direbbe un’altra persona molto cara del mio passato lavorativo).

La canzone della clip è Figlia, di Roberto Vecchioni, tratta dall’album Elisir (1976). In un certo senso, anche lui un antico padre dal quale cercavo risposte a domande difficili: alcune delle quali erano sbagliate, come per tutti i padri, ma dalle quali ho comunque imparato molto. Ho scelto per la lettura del post una canzone che andasse in direzione opposta: non da un figlio verso il genitore ma dal genitore verso il figlio. Perché anche io, dovendo scegliere tra la felicità di un figlio e il compimento del senso profondo della sua vita, non saprei esattamente cosa fare. Però probabilmente a questo punto interverrebbe un calcio nel sedere della madre, che in genere vede sempre più lontano, e il problema sarebbe risolto senza troppi danni.

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