E invece adesso non ne vale più la pena nemmeno di capire

di | 6 Aprile 2017

Lo capisci subito, quando sono di razza superiore.

Hanno gli occhi che illuminano la stanza, questi pazienti, anche se lo sguardo è sofferente. Si muovono con la naturale autorevolezza di chi è abituato, suo malgrado, a non passare inosservato. Ti fanno sulla loro malattia domande più intelligenti della maggioranza degli addetti ai lavori. Non si limitano a fare i pazienti, no: ti studiano, ti misurano, cercano di capire con chi hanno a che fare.

Uno di loro prende confidenza e inizia a parlare: ce lo possiamo permettere, siamo a fine lista, al massimo farò qualche minuto di ritardo a casa. Sa esattamente cosa lo aspetta, al di là della porta di uscita della Radiologia. Sa esattamente quanto tempo lo aspetta e comincia a fare due conti, un bilancio essenziale della propria vita.

Poi, a un certo punto, dopo avermi raccontato particolari della sua vita che chiaramente rimarranno cosa privata, mi chiede a bruciapelo: E a lei, dottore, cos’è che dà veramente fastidio?

Gli ho risposto che avrei dovuto pensarci su, che la domanda era troppo importante per rispondere la prima cosa che mi veniva in mente. Ora, dopo qualche giorno, ho finalmente la risposta.

La cosa che mi dà veramente fastidio, più di ogni altra, è essere giudicato da chi non mi conosce, non ha mai avuto a che fare con me se non per il tramite di altre persone, o di quello che scrivo e dico in occasioni pubbliche. Mi infastidisce la protervia bovina di chi ha tutte le verità in tasca senza averne verificata di persona nemmeno una, di chi ritiene che aver letto qualche libro, nella vita, sia viatico sufficiente a puntare il dito e dire la propria su questioni che nemmeno lo riguardano. Per uno come me, che sospende o tace il giudizio sul prossimo fino a che esprimerlo, in un modo o nell’altro, diventa un obbligo, certo che può essere fastidioso.

Però poi si raggiunge un’età nella quale, bene o male, il tempo a disposizione per soffermarsi su tutto ciò diventa sempre di meno: e là dove una volta ci si incazzava spesso basta una scrollata di spalle per togliersi il pensiero. Ma c’è sempre dietro l’angolo il rischio, enorme, di cui mi ha parlato il Paziente prima di congedarsi: Stia attento a non diventare cinico, dottore, perché il rischio per lei è quello.

Può essere, certo che può essere: in quei casi, quando sento che il rischio è prossimo, metto su la mia musica e penso ad altro. In fondo l’unica cosa che conta, nella vita, è essere bravi a respirare.


La canzone della clip è “Carnival”, di Roberto Vecchioni, tratta dall’album “Il grande sogno” del 1984. La ascoltavo molti e molti anni fa, in preda a turbamenti amorosi, senza nemmeno capire che il vero carnival lo puoi comprendere solo da adulto. Da ragazzini è diverso: è da adulti che diventa difficile.

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