Da quando mio figlio mi ha costretto a interessarmi nuovamente di calcio intuisco la presenza di una questione, non da poco, che dal mondo del pallone si irradia a tutto il resto come una enorme metafora nucleare.
Lasciando da parte la tristezza inenarrabile che genera questa incredibile frammentazione di partite, che serve solo a diversificare l’offerta e a rendere appetibili i pacchetti televisivi e cospicui i diritti televisivi a essi associati, ma che priva gli appassionati del piacere ormai dimenticato della domenica pomeriggio e di 90° minuto, insomma dello sport in generale, c’è un particolare che salta subito all’occhio: nel calcio di oggi non è prevista la sconfitta.
Gli allenatori vengono chiamati in panchina, qualsiasi panchina, con l’imperativo della vittoria-a-ogni-costo. Tre sconfitte di seguito e sei esonerato: non importa se avevi a disposizione mezza rosa per colpa del CoVid, o se hai una squadra di brocchi, e nemmeno se non ti hanno lasciato il tempo materiale di mettere in atto i tuoi progetti. Se perdi, sei fuori. Come direbbe una personcina di mia conoscenza: ti sei bruciato.
Eppure, la sconfitta è una componente essenziale del nostro sviluppo interiore. La sconfitta riconduce all’umiltà, per esempio, che di per sé non fa mai male. Ti costringe a fermare la corsa, a ripensare ai fatti, riprogettare il futuro. La sconfitta, se sei capace di venir fuori dall’odio ecumenico per il resto del mondo che solo lei sa evocare, consente di sperimentare nuovi punti di vista: e magari di scoprire che la tua tattica e la tua strategia erano sbagliate (guai a fossilizzarsi sull’evidenza che i tuoi soldati non fossero all’altezza della battaglia, non ci si guadagna nulla e si perde di vista l’obiettivo finale).
Tutto questo, nel calcio, non è previsto. Nel calcio bisogna vincere, punto e basta. Non credevo fosse possibile vincere il campionato ed essere esonerati per aver perso la Champions League: ma questa è la realtà dei fatti, poco da fare. Però c’è un problema: in qualsiasi competizione può vincere un solo concorrente. Uno solo. Un mondo in cui vincono tutti non solo è irrealizzabile, ma toglierebbe ai partecipanti la gioia della vittoria. Con buona pace del barone de Coubertin, l’importante è partecipare solo in un mondo ipotetico e utopico in cui tutti vincono, sempre e comunque.
C’è una scena chiave, nel finale del film “Io, Chiara e lo Scuro” di Francesco Nuti, in cui il protagonista dopo aver perso la partita decisiva al torneo di biliardo si allontana dalla sala e si rifugia in riva al lago. Lì incontra un taciturno pescatore, interpretato da Ricky Tognazzi, e gli dedica il monologo più importante della mia cinematografia adolescenziale.
“Vedi, Pescatore, l’importante è vincere. Che me ne frega a me di partecipare, eh, che me ne frega? Infatti me lo diceva sempre mio nonno, mi diceva, ricordati Francesco, l’importante è vincere! E io gli dicevo: No. nonno, guarda, quel signore dello sport dice di no, che l’importante è partecipare. E invece aveva ragione mio nonno, l’importante è vincere! Che me ne frega a me di partecipare quando c’è sempre qualcuno che vince? Lui deve vincere, e io partecipare. E chi ha vinto? Lui! E io che ho partecipato non ho vinto nulla? Sa che ti dico, Pescatore che tu peschi, sai che ti dico? Che c’è sempre qualcuno che vince, ed è uno solo. Gli altri cinque miliardi di bischeri pensano di aver vinto solo per il fatto che hanno partecipato. Col cazzo! Anche te, Pescatore, che tu fai, eh, che tu fai? Tu peschi. E se tu non pigli pesci che racconti a casa, che hai partecipato? Sai, Maria, sono stato a pescare. Che hai preso? Nulla, ho partecipato. Divorzi! Divorzi, proprio, guarda”.
E allora che bisogna fare? Cosa fare se l’importante è vincere ma anche la sconfitta fornisce quasi sempre un’occasione di crescita e di riscatto?
La risposta è semplice, forse: ed è quello che cerco di insegnare a mio figlio ogni volta che guardiamo insieme una partita di calcio. Quando si vince non bisogna mai, dico mai, infierire sugli sconfitti. E quando si perde l’importante è non abbandonare il campo di battaglia. Andatelo a dire a quelli, i peggiori di tutti, che hanno il coraggio di infierire dopo aver perso: ci si brucia solo quando si fugge. Gli altri, quelli che rimangono, che cercano di rinserrare le fila, che non abbandonano lo stendardo nelle mani del nemico, riescono a trovare qualcosa di buono in tutto: anche nelle peggiori sconfitte.