Ogni giorno la stessa storia.
Finisco il lavoro, anzi li finisco tutti e due, e anzi li finisco per modo di dire perché con uno dei due rimango sempre un po’ più indietro di come vorrei rimanere. Mi cambio, appendo camice e casacca al gancio del bagno, infilo le scarpe, infilo tutta la roba che potrebbe servirmi, e che invece non riuscirà a servirmi davvero in novantanove casi su cento, nello zainetto Ikea, spengo il PC e le luci della stanza, chiudo a chiave la porta dello studio e saluto tutte le persone che incontro da lì all’uscita. Con qualcuno scambio una battuta, qualcun altro lo vedo seduto davanti alla consolle di lavoro e ho per un istante l’istinto bruciante e malsano di fermarmi a lavorare con lui anche se sono stanco morto; poi devio verso il timbratore e esco a riveder le stelle che non guardavo dalla mattina presto.
Quanto è bella l’aria fresca del mondo, penso in quel preciso momento, quanto bene fa alla mia testa, quanto bello sarà mettermi in auto e sentire un po’ di musica o meglio ancora un po’ di silenzio, quanto bello sarà accorgersi tra poche settimane che è tornata la primavera e gli alberi esplodono di fiori colorati, e costeggiare il fiume sacro alla patria diventerà un privilegio legato alla pura bellezza finalmente immemore delle nebbie feroci di questo inverno, feroci sotto ogni punto di vista.
Ed è in quel preciso momento che mi accorgo di aver dimenticato qualcosa in studio. Le chiavi di casa. Lo smartphone. La sciarpa. La smart card, senza la quale non posso uscire dal parcheggio dell’ospedale. Non importa cosa, ogni santo giorno che il Padreterno manda sulla terra io dimentico qualcosa prima di uscire e sono costretto a invertire la direzione per recuperarla. Sono convinto che all’inizio i miei nuovi collaboratori devono aver pensato che fossi un autentico rincoglionito, il che peraltro non è da escludere a priori, poi con il tempo hanno imparato a riaccogliermi in reparto con un sorrisino di comprensione, me e i miei borbottii su quanto indiscutibilmente io mi sia di fatto rincoglionito.
Però io conosco la verità. Per quanto impegno profonda nel mio lavoro, per quanto cerchi di non risparmiarmi in nulla, ho sempre la sgradevole sensazione di non aver prodotto abbastanza, che avrei potuto e dovuto fare qualcosa in più per me e per gli altri. Mi secca lasciare quella particolare questione a metà, non poter discutere del caso difficile con un collega che me lo chiede, odio lasciare cose da portare a termine il giorno dopo, detesto l’evidenza astronomica che un giorno debba durare solo 24 misere ore, cinque o sei delle quali per giunta passate a dormire.
Ecco, probabilmente, perché ogni giorno dimentico qualcosa in studio e devo tornare a prenderla. E, a pensarci bene, forse per me sarebbe più salutare se fossi solo un po’ rincoglionito.
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