E’ la regola del mondo che non può cambiare mai

di | 19 Agosto 2016

Che poi la vacanza, sebbene breve, è stata rasserenante come non accadeva da tempo. Che poi ho pure cercato di staccare la spina, in tutti i sensi: e durante il giorno ci riuscivo anche bene. Però di notte, ogni santa notte, non ho ho fatto che sognare il reparto, il lavoro che aumentava sulla scrivania, le pratiche burocratiche che mi assediavano da ogni dove. Cumuli di fascicoli cartacei che si accatastavano gli uni sugli altri e io seduto dietro disperato, come un Fantozzi qualunque.

Avete presente quei sogni pazzeschi in cui sai di dover partire e mille imprevisti si frappongono tra te e l’orario del treno? O quei filmini all’italiana dove Renzo Montagnani prova in tutti i modi a infilarsi nella camera da letto della Fenech e ogni volta, per futilissimi motivi, gli va buca? Ecco, uguale.

Ma poi, dopo qualche giorno a lavorare in quasi solitaria nell’ospedale del mare, a rimirare la fittizia enormità dell’Adriatico mentre sorbivo il caffettino schifoso delle macchinette del secondo piano, a respirare l’odore del sale tornando a casa in bicicletta, al tramonto, sono dovuto andare all’ospedale del fiume per una riunione. Quando sono entrato nel mio reparto, che strano, non mi ha colpito il silenzio del tardo pomeriggio. Questa volta è stato l’odore a colpirmi, l’odore buono delle stanze e delle persone che ci lavorano, tutte insieme, strette gomito a gomito. Sono stato accolto dalla scrivania, che era davvero ingombra di posta, ma soprattutto da sorrisi, abbracci e inviti a discutere casi clinici. In un  secondo i miei colleghi mi hanno risucchiato nella vita quotidiana del reparto, e ce ne siamo stati lì a parlare fino a tardi di fisiopatologia dell’intestino.

Poi, di ritorno al mare, si è scatenato l’inferno. E’ caduta tanta di quella acqua dal cielo che non avete idea: strade che sembravano fiumi in piena, cassonetti dei rifiuti che galleggiavano in strada, rami di alberi che volavano, trascinati dal vento impazzito, a due centimetri dal cristallo della mia auto. Ma mentre ero in fila con tutte le altre auto, quasi disperando di riuscire a raggiungere il resto della famiglia, ho pensato a quanto mi è mancato in questi giorni il mio reparto, i miei colleghi, tutti. Non me ne ero accorto mentre ero via, intendiamoci: l’ho realizzato solo tornando al lavoro.

E ho pensato anche a quanta disciplina c’è voluta per arrivare dove siamo ora, quanta fatica di ognuno e quanti sacrifici e quante rinunce, e quanti turni accorpati e quanti referti divisi tra tutti perché un collega si ammalava all’improvviso e in qualche modo bisognava metterci una pezza, e quanta disponibilità a tenere la velocità giusta, quella che non ti fa andare in fuga ma nemmeno, il che è molto più importante, lascia qualcuno indietro. Bene, questa grande fatica sta finalmente per finire: e io credo che ci abbia reso tutti più forti, consapevoli, pronti a fare un bel salto in avanti.

Un giorno ripenseremo a tutto questo, dicevo oggi a una collega, e sorrideremo alquanto. Perché della disciplina, quella vera, quella che senza nemmeno parlare troppo tutti ci siamo imposti come una regola benedettina, nessuno ne saprà mai niente. Ma non importa. Noi, comunque vada, andiamo avanti.

E, ragazzi, accidenti se mi siete mancati.


La canzone della clip è “La disciplina dell’amore”, tratta dall’album “Idra” di Mimmo Locasciulli (2009). L’ho scelta perché parla anch’essa di una forma estrema disciplina, forse ancora più rigorosa di quella lavorativa. E perché, tutto sommato, dovrebbero rendere illegali le sue canzoni: in ultima analisi, non sono semplici canzoni. Sono bombe nucleari.

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