In molti, prima di questi giorni frenetici che accompagnano la pubblicazione del mio romanzo, nemmeno sapevano che io scrivessi.
Qualcuno pensava a ragione che si, ho la penna facile, e che questa fissazione per la scrittura si manifestasse soprattutto nell’attenzione maniacale alla costruzione di un referto radiologico.
Qualcuno sapeva dell’esistenza del blog e mi aveva già detto che scrivo tanto, e a volte scrivo a sproposito. Qualcun altro, che mi conosce da sempre, sa che in quarta elementare riempivo il quaderno a righe con piccole storie di avventura: avevano come protagonisti i miei compagni di scuola e il maestro li leggeva a tutta la classe. Io, se devo essere sincero, durante quelle letture mattutine un po’ mi sentivo gonfiare di orgoglio e un po’ mi vergognavo. Come fanno i bambini, appunto.
Tra le molte domande a tema che ho ricevuto in questi giorni, la più frequente è stata questa: Sei tu il protagonista del tuo libro? Ma questa è una curiosità insana e inutile, non ha nulla a che vedere con la storia narrata. E’ gossip di terza categoria. E poi, e anche fosse, sicuramente non lo andrei a dire al primo che passa per strada.
Ma ce n’è stata un’altra, di domanda, più interessante e complessa. Perché scrivi?
Io credo che chiunque dedichi parte del suo tempo alla scrittura (ma anche a qualsiasi altra forma di espressione, beninteso) cerchi soltanto di dare sfogo al suo dolore. Quando qualcuno chiedeva a Luigi Tenco perché mai scrivesse solo canzoni tristi, lui alzava le spalle e rispondeva: Perché quando sono felice esco. Logica impeccabile. Stupida la domanda, piuttosto.
Perché esiste un dolore, dentro di noi, che non trova tregua se non in pochi e brevi momenti di grazia. E’ un dolore che nasce insieme a noi, non a caso il nostro primo istinto di neonati è piangere, e si accresce giorno dopo giorno. Le lacrime diventano prima un rigagnolo, poi un canaletto di scolo, quindi un piccolo torrente di montagna. Alla fine, quando riesci a realizzare la sua esistenza, si è già tramutato in una corrente sotterranea che trasporta con sé detriti, fango, rifiuti, e convoglia tutte queste schifezze nel grande mare in cui si mescolano le vite delle persone. E’ un dolore privato, è solo nostro e di nessun altro. Nessuno può comprenderne le ragioni, perché quelle fanno vergognare anche noi stessi. Al limite può condividerne gli effetti, ma sempre e comunque per poco tempo: perché ognuno ha già il suo da badare, di dolore, per accollarsi anche quello altrui.
Ecco: scrivere è come tracciare una mappa topografica di quella corrente sotterranea. E’ individuare la sua sorgente e la sua foce, numerare uno a uno gli affluenti che la ingrossano. Scrivere è come costruire una barchetta di carta per navigare su quella corrente alla meno peggio, senza farsi travolgere dai flutti: nient’altro che una navigazione solitaria in acque sporche. E’ illudersi senza speranza che alla fine il viaggio nel fiume tumultuoso del proprio dolore abbia fine e cominci la bonaccia del mare aperto. O che qualcuno decida di salire sulla tua barchetta traballante, con la poca mercanzia che ciascuno di noi possiede, per dividere un pezzo di strada.
Alla fine, credetemi, scrivere è un mestiere inutile: non placa il dolore, semmai lo acuisce. Ci sono dolori intraducibili, che non si possono riportare su una pagina bianca nemmeno per fini terapeutici. E infatti alcune storie costano una fatica inenarrabile, rimangono bloccate a lungo o per sempre nella punta della penna o delle dita perché sono più dolorose di un parto.
Date retta a me: io sono un cialtrone e la mia scrittura non è poi niente di che. Ma di quelli che scrivono bene, ma davvero bene, abbiate un rispetto vero: sono monaci cavalieri che si prendono sulle spalle tutto il dolore del mondo, e ve lo porgono in porzioni abbastanza piccole perché voi possiate sopportarlo senza impazzire.