Ho scioperato finora una sola volta, nel 2002 o 2003, e non ne ricordo nemmeno il motivo. Certo, deve essere stata una faccenda seria, quella, perché come tutti i medici del mondo, ma proprio tutti, l’idea di assentarmi dal posto di lavoro per rivendicare diritti di qualunque natura mi fa venire la nausea, mi leva il sonno e mi innervosisce.
Qualcosa come un decennio dopo, vi comunico che il prossimo 22 luglio ho intenzione di scioperare. La questione è complessa e non sta tutta, come può pensare qualcuno, nel mancato rinnovo di una sfilza di contratti che non sto a dirvi: in fondo, finché dura, siamo ancora una categoria professionale privilegiata, e il nostro stipendio a fine mese ci arriva, bene o male. Certo, è triste pensare che se ti guardi in giro ti passa la voglia di lamentarti se il tuo contratto è fermo dal 2009, ma è anche vero che (…) a ogni medico del Servizio sanitario nazionale il blocco dei contratti e delle retribuzioni dei lavoratori del pubblico impiego, in vigore dal 2010 e che molto probabilmente verrà esteso a tutto il 2014, alla fine di questi cinque anni sarà costato circa 30mila euro (…). La fonte è quotidianosanità.it del 14 luglio.
Ma la questione, credetemi, non è solo economica. I motivi della protesta sono stati elencati dalle associazioni sindacali di categoria, una volta tanto unite, nella seguente nota: “Per la difesa di un sistema sanitario pubblico e nazionale; per la stabilizzazione dei precari e l’occupazione dei giovani; per la riforma della formazione medica pre- e post laurea; per una legge specifica sulla responsabilità professionale; per il diritto a contratti e convenzioni ed il ripristino delle prerogative sindacali; per un sistema di emergenza efficace, dignitoso, sicuro; per la definizione di livelli essenziali organizzativi; per una progressione di carriera sottratta alla politica e ai tagli lineari”. Leggeteli bene, quei punti: benché vergati in sindacalese, che come sapete non è la mia lingua preferita, sono tutti importanti. Uno più dell’altro.
Come ho già detto tante volte, la crisi può diventare un’opportunità senza pari: per compiere scelte coraggiose che altrimenti non sarebbero mai state prese in considerazione. Per esempio, una legge seria sulla responsabilità professionale che eviti a medici e al SSN uno tsunami di cause legali che quasi sempre finiscono a favore del sanitario ma intanto hanno bruciato risorse a non finire, anche umane. Oppure una riorganizzazione dell’urgenza, che da qui ai prossimi decenni rappresenterà la battaglia cruciale della medicina: come ogni battaglia, avrà bisogno di soldati bene addestrati e motivati.
E poi la progressione delle carriere, sottratte alla politica e ai tagli lineari. La prima eventualità è remota. Gli ospedali sono luoghi in cui si esercita il potere: nessun politico sarà mai disposto a rinunciare alla prerogativa di dire la parola finale sulla nomina di un direttore generale o di un primario. Mettiamocela via, questa battaglia è persa in partenza per quanto si possano modificare le regole di un concorso. Ma i tagli lineari sono un altro discorso. Questa congiuntura parecchio sfavorevole ci fornisce l’occasione per tagliare dove il sistema funziona peggio e premiare invece le realtà dove si lavora meglio. E’ l’occasione buona per stabilire, nonostante il sindacalese di cui sopra, che i lavoratori (in campo medico, nella fattispecie, ma credo in qualunque altra circostanza) non sono tutti uguali, non hanno le stesse responsabilità ovunque, non producono una qualità di lavoro omogenea e dunque non possono essere trattati, economicamente o come progressione delle carriere, allo stesso modo.
Sarebbe un punto di partenza, l’inizio di qualcosa di nuovo. L’idea che ci possa essere ancora la speranza di vedere una delle migliori sanità del mondo funzionare dignitosamente. Nonostante tutto.