Fenomenologia del Prosecco applicato alla Radiologia

di | 2 Settembre 2012

Lo sapete, io sono veneto di adozione e di matrimonio. Nonostante le mie ascendenze borboniche, quassù mi sono sempre trovato bene e rifuggo recisamente (sentite che parolona) i luoghi comuni sulla scarsa attitudine dei veneti ad accogliere chi viene da fuori. I miei due figli, mezzi veneti per DNA, lo sono quasi interamente per tutto il resto: ogni tanto cerco di insegnar loro qualche parola del mio dialetto, ma sentire mia figlia di quasi quattro anni dire al nonno Caccia ‘a muzzarella! con cadenza veneta, e per telefono, mi abbatte ogni velleità residua.

In Veneto, da bravo ex astemio, e in particolare nel luogo in cui abito adesso, ho poi trovato il nettare degli dei: il prosecco.

Il Prosecco non è un vino come gli altri. Non appesantisce il palato, non lascia sgradevoli retrogusti tannici sulla lingua o bruciori gastrici da risveglio difficile. Il prosecco non induce stordimenti molesti, schiamazzi notturni, pozze di vomito agli angoli di strada. Piuttosto un languore lungo e misurato, un’ebbrezza leggera che spalanca delicatamente la coscienza. Un desiderio di ubriacatura, più che la volgare sbornia dei rossi da taverna, veicolata dall’istinto antigravitazionale delle bollicine in movimento: che salgono eteree verso il cielo, mica sprofondano verso il fondo del bicchiere.

Mi direte: cosa c’entra tutto questo con la Radiologia. C’entra eccome: perché a molti di voi sarà capitata una giornata congressuale molto intensa, dalle otto di mattina alle sette di sera, con giusto tre quarti d’ora di intervallo per pranzare al volo; peggio ancora se eravate tra i relatori, e dunque alle fatiche della presentazione si è sommato anche l’impegno, immancabile e non privo del suo fascino, delle pubbliche relazioni.

Ogni congresso che si rispetti prevede una cena sociale. Immaginate di uscire dall’atmosfera satura di anidride carbonica della sala dove si sono svolti i lavori, dopo dieci ore di full-immersion, e di respirare un po’ di aria pura mentre qualche anima pia vi accompagna in automobile al ristorante. Immaginate di arrivare stanchi, sfatti, sudaticci quel tanto che basta per aver solo voglia di allentare il nodo della cravatta (ma non lo farete, sarebbe come togliere la giacca a cena) e tergervi la fronte con una pezzuola umida, nel silenzio uterino del bagno. Ecco: a questo punto, varcata la soglia del ristorante, se siete in Veneto orientale troverete un cameriere sorridente e gentile con un vassoio in mano, e sul vassoio una fioritura di calici di prosecco. Prosecco freddo, non ghiacciato, insomma alla giusta temperatura: che il calice vi vien voglia per un istante di poggiarvelo sulla fronte per trovare un po’ di sollievo.

A quel punto nessun refrigerio è maggiore di quello che si prova dopo tre o quattro calici di prosecco, buttati giù uno dopo l’altro, a stomaco rigorosamente vuoto, persino rifiutando le profferte alimentari del cameriere che soggiunge con un vassoio di stuzzichini. Non che gli stuzzichini siano men che deliziosi, anzi: è che il prosecco deve andare in circolo veloce, riattivare le connessioni neuronali scollegate, fungere da lubrificante nuovo di zecca per motori usurati.

Dopo la cerimonia del prosecco non si avvertono sbandamenti alcolici, euforie isteriche da signorine di buona famiglia alla prima uscita mondana: però lo sguardo torna a fuoco sul mondo circostante, il sorriso naturale si allarga di nuovo sui nostri visi, si può riprendere il valzer di futili ma piacevoli conversazioni da aperitivo serale di cui sono ricche le cene congressuali. Sperando che il nostro vicino di tavolo abbia ceduto alla stessa tentazione alcolica, si senta rilassato quanto noi e, soprattutto, non abbia voglia di parlare di lavoro.

PS Ho fatto di recente un gioco con mia moglie. Una sera, stravaccati sul divano, ci siamo chiesti: se potessi scegliere tre cose che vorresti assolutamente trovare in Paradiso, cose e non persone, mi raccomando, cosa sceglieresti? Una delle mie tre è stata il prosecco. E le vostre tre?

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