Forse il vero amore vuol restare grande (fenomenologia spicciola di Gianpiero Ventura)

di | 21 Novembre 2017

Lo so, ci piace vincere facile. E lo so, il perdente è sempre comodo da attaccare e demolire: e infatti ho atteso qualche giorno prima di dire la mia, e soprattutto ho atteso che tutti si sfogassero, invocassero le sue dimissioni, lo criticassero per i soldi che continua a rubare percepire alle spalle dei contribuenti italiani e, se possibile, gli murassero un cesso davanti ala porta di casa come facevamo da goliardi universitari con i nemici del nostro Ordine di appartenenza.

Ventura, diciamocelo, fa quasi tenerezza perché è uno di noi. È l’alfiere nel mondo calcistico internazionale della nostra aurea mediocritas. Ventura è l’uomo scelto per una posizione di comando senza mai aver fatto nulla per meritarselo: uno scudetto, una coppa europea, uno schema di gioco meritevole di memoria. È l’uomo scelto, forse, perché proprio in virtù del fatto di non aver mai vinto nulla è comodo da manovrare, duttile alle imposizioni dall’alto, malleabile alle pretese dei cosiddetti senatori dello spogliatoio. Ma il vero problema non è questo.

Il problema è invece il seguente: perché Ventura ha accettato una sfida così complessa? Per soldi, direte voi. Ma ne aveva davvero così tanto bisogno? L’impressione è che per un allenatore di calcio italiano, per quanto degenerati siano i tempi in cui viviamo, affrontare l’impresa della Nazionale non abbia prezzo. Forse il nostro Gianpiero avrebbe accettato anche per metà dei soldi dati al suo più illustre predecessore. Forse per Gianpiero Ventura la sfida nazionale era la scorciatoia per sdoganarsi, passare alla storia, accreditarsi come allenatore di rango mondiale senza aver mai posseduto le credenziali giuste.

E il mondo, credetemi, è pieno zeppo di gente come lui. Forse conscia dei propri limiti, ma pronta a fregarsene perché arrivare in cima è comodo e remunerativo. O forse nemmeno conscia di tutto questo, solo animata da una presunzione senza fine che non gli fa tenere in conto la fatica che hanno fatto altri, prima di loro, per raggiungere un risultato importante. O da un smania di riscatto che li rende ciechi e sordi alle evidenze: e cioè che la vita è una competizione difficile nella quale non basta dire la propria con il ditino alzato e la voce alta, ma bisogna essere più veloci e talentuosi degli altri per avere l’opportunità di opporre qualche resistenza alla strada facile delle conoscenze, delle affiliazioni e delle parentele di vario genere e grado.

Ecco, secondo me il problema di Ventura non è che qualcuno, altrettanto scalcagnato di lui, lo abbia posto a capo di una impresa più grande delle sue possibilità tecniche e del suo carisma. Il problema è che Gianpiero abbia accettato la sfida pur, in cuor suo, sapendo di non essere all’altezza. O, peggio ancora, convinto di esserlo.

Senza dimenticare mai che la vita è strana assai: e che sarebbe bastato un colpo di culo, una carambola fortunosa in area di rigore, un cross in meno di Candreva, un Insigne a sgattaiolare rapidissimo sotto le gambe dei legnosi difensori svedesi, un rigore non negato a inizio partita, e adesso staremmo tutti qui a tessere le lodi del grande allenatore e a ricordare Bonucci che getta la maschera a bordo campo come il gesto nobile di un eroe sprezzante del pericolo, e non come il lancio della spugna di una squadra che si arrende. Poi saremmo andati ai mondiali e le avremmo prese abbestia, spostando il problema solo di pochi mesi: ma almeno io avrei potuto guardare il primo e forse ultimo mondiale della mia vita con mio figlio. Che il prossimo giro avrà quindici anni e figuriamoci se lo guarderà insieme al vecchio padre.


La canzone della clip è “Nuovo swing”, di Enrico Ruggeri, tratta dall’album “Presente” del 1984. Un’altra di quelle canzoni che ascoltavo a quindici anni, senza capirla minimamente, rapito solo dal ritmo, e lungi dall’immaginare che il testo, e in particolare l’incipit, mi sarebbero stati chiari solo molti decenni dopo. Ma è così che va la vita, pavento.

Lascia un commento