Qualche mattina fa è arrivato in risonanza magnetica un signore, lo chiamerò Giuseppe, che controllo da ormai molti anni per una brutta neoplasia del rinofaringe: uno di quelli che mi ha dato maggiori soddisfazioni per la buonissima risposta alla terapia, in un campo in cui spesso e volentieri i pazienti non fanno una gran bella fine.
Ma ci sono altri motivi per cui mi sono sempre sentito molto legato a quel signore. Ricordo che quando gli fu diagnosticata la malattia lui era incredibilmente disteso, nonostante fosse alle prese con il secondo tumore della sua vita. Quando gli chiesi il motivo del suo ottimismo lui ghignò beffardo che il Padreterno avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ prima di aver ragione della sua resistenza. E così infatti è stato: una risposta sensazionale alla radio-chemioterapia e da allora controlli sempre negativi. Nel pieno del primo ciclo di terapia, Giuseppe pensò bene di sposarsi per la seconda volta: ridemmo a lungo insieme, in occasione del secondo controllo, sull’evidenza incontestabile del suo poderoso ottimismo in ambito matrimoniale. Lui disse che quel matrimonio era la prova ineluttabile della sua volontà di non mollare: da allora non ha mai cambiato versione, prova vivente che la voglia di esistere spesso aiuta a superare qualunque dramma fisico.
Qualche mattina fa Giuseppe è arrivato in reparto, dicevo, mi ha salutato e aveva gli occhi meno brillanti del solito. Gli ho chiesto come stesse, lui ha risposto che si sentiva bene: l’esame gli ha dato ragione, a distanza di tre anni la malattia è ancora assente e tutto procede per il meglio. Ma quegli occhi, beh, quegli occhi non mi hanno convinto: gli ho chiesto se anche il resto andasse e bene e lui ha risposto, criptico: Il Padreterno ha deciso che bisogna stare ancora qui a soffrire.
Ci sarà ancora qualcosa da imparare, ho ribattuto io.
Soffrendo, ha ribadito Giuseppe prima di entrare in RM con l’aria del condannato che sale sul patibolo.
E lì mi sono soffermato a riflettere. Sulle modalità con cui impariamo le nostre lezioni più importanti, per esempio: che sono quasi sempre improntate alla sofferenza. Perché è raro che noi si impari lezioni importanti dagli eventi felici: quasi sempre sono le batoste a insegnarci a vivere. Quando siamo felici il benessere che deriva dalla nostra felicità ci tiene fermi, bloccati in quel piccolo universo di gioia: stiamo bene ma non ci evolviamo, non c’è alcuna ricerca di cambiamento. È quando stiamo male, viceversa, che si consuma la nostra volontà di cambiamento e talvolta di crescita. Morale: riusciamo a diventare persone migliori, o ad accorgerci del meglio che già esiste nelle nostre vite, solo quando siamo nella cacca fino al collo.
Insomma, devo annotarmi una domanda da porgere al Creatore, quando sarà il momento, sul perché i nostri percorsi di crescita interiore siano strutturati sulla sofferenza e non sulla gioia. Quanto al signor Giuseppe, cosa volete che vi dica: lui è rimasto sul vago, io non ho chiesto nient’altro. Magari aveva solo una giornata storta, come me peraltro, e non c’era nessun bisogno di scomodare e coinvolgere nella discussione Iddio che è nei cieli o chi per Egli.