Come si legano insieme la vicenda umana di uno degli alunni del celeberrimo programma televisivo “Amici” e la storia del degrado culturale degli ultimi decenni, lo stesso che di recente ha portato alla revisione del finale della fiaba di Biancaneve perché il bacio del Principe, essendo la ragazza priva di sensi, non sarebbe consensuale e quindi diseducativo per i più piccoli?
Intanto, pochi sanno che la versione in cui Biancaneve viene risvegliata dal Principe con il bacio rubato è una di quelle alternative. Nella prima versione dei fratelli Grimm Biancaneve si risveglia perché la bara di cristallo in cui è distesa, mentre il Principe la trasporta nel suo castello, scivola giù per una scarpata: l’urto della bara contro le asperità del terreno fa saltar fuori il pezzo di mela avvelenata dalla bocca di Biancaneve, che si risveglia (e poi, manifestando lucidamente il suo consenso, sposa il Principe).
Ma veniamo ad “Amici”, che il sabato sera rappresenta un momento di convivialità familiare difficile da ottenere in qualsiasi altro momento della settimana per le esigenze disparate dei suoi membri. Uno dei protagonisti si chiama Deddy, ha vent’anni, viene da una famiglia umile e, come si dice in gergo, si è fatto da solo. Ha cominciato a lavorare molto presto come barbiere e coi primi risparmi si è comprato una piccola tastiera: con la quale, narra la leggenda, si è impratichito grazie ai tutorial di YouTube fino a manifestare la sua vena artistica in canzoni composte da lui stesso (sulle quali non esprimo un giudizio personale perché non pertinente al tema della riflessione). Insomma, un ragazzo destinato a una vita anonima che trova la tenacia e la forza interiore necessaria a svoltare ed affermarsi, anche se (come lui stesso ha raccontato) i suoi amici lo prendevano in giro e cercavano continuamente di sminuire i suoi sforzi. Vorrei vedere la faccia dei suoi amici adesso che Daddy si sta giocando la finale di “Amici”: ma su questo torneremo più tardi.
Da circa quattro mesi un ragazzo di venticinque anni ha aperto un negozio di barbiere poco lontano da casa mia. All’epoca mi dissi: cavolo, perché non dargli una mano? In fondo un ragazzo giovane che apre un’attività, durante una pandemia mondiale, ha quantomeno del fegato. Il barbiere, lo chiamerò Luca ma non è il suo vero nome, si è dimostrato un abile professionista e ha capito al volo come domare i miei capelli che, come sa bene chi lo ha preceduto negli ultimi cinquant’anni, sono parecchio duri da tenere a bada. In più è simpatico, sagace, alla mano. E in più il suo negozio è sempre lindo e pinto, pulito a specchio. L’ultima volta, ieri, abbiamo parlato della sua storia: a diciassette anni consegnava pizze a domicilio. A diciotto ha cominciato a lavorare come garzone da un barbiere, mentre i suoi amici lo prendevano in giro e gli davano dello “sbeccato”, termine veneziano poco elegante per suggerire la presunta tendenza all’omosessualità di chi riceve il complimento. A venticinque anni Luca ha aperto la sua attività in proprio: non ha padroni, gestisce il suo negozio in autonomia e ha la lista di clienti sempre piena zeppa. Nei suoi occhi, mentre lavora, scorgo una luce che somigliava molto a quella che avevo io alla sua età: la sensazione che stai realizzando un sogno, partendo da zero, senza nessuno che ti aiuti, è inebriante. Gli ho chiesto che fine avessero fatto gli amici che gli davano dello sbeccato: un paio sono disoccupati, un altro (testuali parole) pippa l’impossibile e naviga in gran brutte acque, e in pochi hanno combinato qualcosa di buono. Sarebbe bello vedere anche la faccia degli amici di Luca, quando passano davanti al suo negozio: temo sia parente stretta di quella degli amici di Daddy quando lo vedono in televisione su “Amici”.
Il tutto, e spero che adesso finalmente capirete il pensiero contorto che mi ha spinto a scrivere queste righe, si correla parecchio da vicino al monologo di Lenny Bruce nel film sulla sua vita interpretato magistralmente, come al solito, da Dustin Hoffman. In particolare quando Lenny dice, a proposito dei luoghi comuni offensivi verso i singoli individui o le categorie: “È la repressione di una parola a darle violenza, forza e malvagità”. A un certo punto Lenny dice che se quelle parole fossero usate in continuazione, anche dal presidente Kennedy, perderebbero la loro importanza e «nessuno potrà mai fare piangere un bambino nero di sei anni perché qualcuno lo ha chiamato negro a scuola». Stabilire regole rigide per vietare l’uso di parole offensive, in qualche modo, sembra dare vigore all’offesa stessa. O non è vero?
Ma questo è un argomento difficile da trattare, e non credo che Facebook sia la piazza ideale dove confrontarsi in tempi bui nei quali l’uso dei termini adoperati nella discussione sembra preponderante rispetto al tema della discussione stessa. E certo, potremmo perderci per ore sul seguente dilemma: sono le parole con cui descriviamo la realtà a crearla o è la realtà stessa a creare le parole con cui viene descritta? Ma non è questo il punto.
Io, con Lenny Bruce, credo che le parole alla fin fine siano solo parole: cioè contenitori vuoti in cui riversiamo la nostra personale idea di realtà. Possiamo essere più o meno bravi a riempire quei contenitori, ma credo che l’ingrediente fondamentale sia la materia con la quale li riempiamo, non i contenitori in sé. Ma non ho la pretesa della ragione a priori, e sono arrivato a un’età in cui non è più così necessario ottenerla a tutti i costi.
Ho scritto queste quattro righe per un altro scopo: suggerire ai Deddy e ai Luca di tutto il mondo di non dar retta alle prese in giro da parte di piccole persone spaventate, ma di perseverare sempre, con tutta l’anima, nel progetto di vita che ci si è immaginati. Potrà andar bene, se siamo abbastanza motivati e/o abbastanza fortunati, o potrà andar male: ma quantomeno, a differenza di chi getta la spugna ancor prima di partire e vorrebbe che anche gli altri facessero lo stesso, ci avremo provato con passione e determinazione. Chi si brucia non è chi fallisce, ammesso poi che abbia fallito, ma chi non ci prova nemmeno o scappa a gambe levate alla prima difficoltà.
Perché la vita funziona così: qualcuno scrive le favole e qualcun altro prova cambiarne i finali. Bisogna scegliere da che parte stare: e io, tutto sommato, il Principe di Biancaneve lo capisco.
La canzone della clip è “Giusto o sbagliato”, di Alessio Caraturo, tratto dall’album “Ciò che desidero” del 2005.