Perdonatemi, in questi giorni ho avuto un po’ di cose importanti da fare e la mia latitanza dal blog è stata forzata. Riprendo la penna in mano, si fa per dire, perché voglio farvi gli auguri di buon Natale, come ogni anno, e raccontarvi due o tre cose che ho capito della vita in questo incredibile 2016 che sta per tramontare.
Ho capito, per esempio, che i sogni sono fatti di una sostanza ineffabile: per uno che si volatilizza, lasciandoti in preda al panico e allo sconforto, un’altro prende improvvisamente forme che tu non avresti mai potuto immaginare prima di quel momento.
Ho capito che non esistono traguardi facili, da nessuna parte, e quelli che li raggiungono senza fatica o stanno mentendo o hanno barato.
Ho capito, e qualcuno dubitava bonariamente che io ne fossi capace, che l’arte sottile della mediazione è nobile e non plebea, e non implica necessariamente che uno debba piegarsi e rinunciare alle proprie più profonde convinzioni. Semplicemente, la mediazione implica l’idea sublime che il torto e la ragione non stiano sempre da una parte soltanto; e che nessuno debba essere considerato, come si diceva ai tempi della mia specialità ferrarese, una boccia persa.
Ho capito che un branco, per non lasciare nessuno indietro, deve andare alla velocità che possono tenere i lupi più lenti, quelli temporaneamente deboli o ammalati; ma anche il lupo più lento può capire che se stringe i denti e tira avanti, nonostante gli acciacchi, il branco gliene sarà grato.
Ho compreso la natura di alcune solitudini strutturali, anche, e apprezzato lo sforzo che molti hanno fatto per mitigarla, a prescindere dal risultato finale: la gente è in genere migliore di quanto si pensi, e migliore di quanto le stesse persone talora credano di sé stesse. I brutti esempi che abbiamo di fronte ogni giorno, a partire dal vertice della nostra povera repubblica, non sono la regola ma l’eccezione: altrimenti sarebbe andato tutto a puttane già da un pezzo.
Quando da ragazzino giocavo a tennis l’adrenalina dei tornei mi dava alla testa. Se ero abbastanza allenato, e la cosa non accadeva spesso perché all’attività fisica ho sempre purtroppo preferito quella mentale, prendermi a pallate era possibile solo se l’avversario era di un altro livello. In mezzo al campo stringevo forte i denti e il manico della racchetta: sapevo per certo che non sarei mai diventato un campione, ma quando ero sotto di punteggio mi ripetevo che fino all’ultima palla la questione non era ancora risolta; e se ero sopra, beh, se ero sopra il problema non era il mio ma del mio avversario. Posso contare sulle dita di una mano le volte in cui, sempre quando ero ben allenato, ho perso con uno che sulla carta era più scarso di me: e di questa frase la parte importante non è il fatto di aver vinto più spesso di quanto abbia perso, credetemi, ma quello di essere stato ben allenato.
Ieri sera giocavo a scacchi con mio figlio. Lui, che tra poco compie 10 anni e gioca già molto meglio di me quando avevo la sua età, si ostina a ragionare in termini di pezzi: Papà, se tu mi mangi il cavallo, dice, io ti mangio l’alfiere e siamo pari. Allora ho provato a fargli guardare la cosa da un’altro punto di vista.
Gli scacchi sono un gioco, per due terzi, prevedibile e quasi banale. Le prime dieci o undici mosse, se uno conosce la teoria delle aperture, sono quasi obbligate salvo piccole varianti fantasiose che in genere portano più danno che beneficio. Le ultime mosse, quelle di chiusura, sono altrettanto codificate: se vuoi vincere con re e alfiere contro re non c’è molto da inventarsi, la strada è una sola. Ma il centro partita, ragazzi, è quello il paradiso dello scacchista, il luogo e il tempo in cui tutto può accadere e si intravedono la negligenza del praticone o la luce del genio. Come tutte le situazioni in cui sei solo con te stesso e contro un avversario, come sul 3-3 nel terzo set di una partita di tennis, la fatica ti piega le ginocchia. Nel centro partita il tempo passa, inesorabile, e tu devi inventare una strategia valida prima che termini quello che hai a disposizione.
Sapeste quante volte, nel bel mezzo di un centro partita, ho avuto la tentazione di buttare per aria i pezzi della scacchiera. Quella maledetta difesa del nero che non sopportavo, per esempio, o l’assoluto equilibrio dei valori in campo che non ti fa scorgere nessuna via d’uscita. Eppure in quei momenti, come durante un tie-break nel tennis, la sola strada è identificare il punto debole nella strategia del nemico e concentrarsi su di esso. Può essere l’ostinazione presuntuosa dell’avversario a passarti con il diritto* oppure quel pedone apparentemente inattaccabile sul quale concentri tutto il fuoco del tuo arsenale, fosse anche la regina.
Papà, perché ti sei fatto mangiare la regina? Semplice, figlio mio, gli ho risposto infliggendogli in tre mosse uno scacco matto che spero gli serva da lezione per i prossimi settanta anni. Perché negli scacchi non esistono solo i pezzi ma c’è un altro valore da conquistare e difendere: la posizione. E allora credo che la questione che affligge le nostre esistenze si traduca in una sola e fondamentale domanda, che ho finalmente realizzato in questo 2016: quanti pezzi della nostra scacchiera siamo disposti a sacrificare per vincere la partita, senza nemmeno essere sicuri della vittoria finale?
E’ con questa domanda che vi abbraccio tutti, vi auguro buone feste e spero che il 2017 porti cose buone a tutti. Non so se ci sentiremo ancora, prima della fine dell’anno, però credo proprio di avervi già detto tutte le cose importanti adesso. Tipo che tennis e scacchi si somigliano tanto, ma davvero tanto**.