Il punto di vista di Matteo, personalmente, tutto sommato lo condivido: ma vorrei chiarire alcuni punti.
Fin qui, in sanità si è cercato di risparmiare con misure risibili: taglio del personale, mancata sostituzione di quello che va in pensione o in maternità, abolizione e accorpamento dei primariati, porzioni di cibo più ridotte nelle mense ospedaliere (sic). Si è parlato di un eccesso di personale amministrativo, che ai tempi di internet è non soltanto vero ma anche una realtà tragicamente ridicola: ma questa è tutta fuffa, sono le briciole e neanche scalfiscono l’enormità del problema. Che sta invece, secondo me, proprio nel punto che indica Matteo.
Che in Italia ci siano troppi ospedali è pacifico: non occorre fare troppa strada dalla Lombardia, dove abita Matteo, e recarsi fino in Calabria. Basta che facciate il calcolo degli ospedali attivi in un raggio di 30 km quadrati dal centro di Verona e ve ne farete un’idea chiara. E sono d’accordo anche con Gianni: la logica dell’ospedale sotto casa, che presuppone una logica clientelistica della politica, è parecchio responsabile dello sfascio sanitario. Ma per me il punto non è differenziare gli ospedali in hub e spoke: il punto è che gli ospedali spoke andrebbero chiusi, punti e basta, sprangati, rasi al suolo e coperti di cenere e sale affinché sopra non ci ricresca nulla. Perché? Perché il rapporto tra i costi di un ospedale spoke aperto e la qualità/quantità delle prestazione che quell’ospedale eroga è scandalosamente basso. I costi di gestione di un ospedale hub non sono molto differenti, tutto sommato, da quelli di un ospedale spoke: la differenza non la fanno tanto i posti letto in più o in meno, o il primario in più o in meno, ma le spese di mantenimento e gestione di un baraccone (che può essere un baraccone spoke, dunque di dimensioni più contenute, ma sempre baraccone resta). E invariato rimane sempre e comunque il nodo critico della disparità qualitativa e quantitativa tra le due tipologie di ospedale: quando in una ULSS ci sono due reparti uguali, mettiamo di chirurgia, il problema non lo risolvi accorpando i primariati ma chiudendo uno dei due, quello meno performante. Ossia, chiudendo l’ospedale che non serve, quello più piccolo e che verosimilmente possiede il materiale umano e le apparecchiature peggiori.
E come lo risolveresti tu il problema della chiusura degli ospedali hub, mi sento chiedere spesso? Il personale dove lo metteresti? I pazienti? E il servizio territoriale?
Beh, giusto per partire, se chiudi gli spoke allora devi ipertrofizzare l’ hub di riferimento: il risparmio derivato dalla chiusura di tre ospedali spoke hai voglia e se lo copre, l’aumento di costi legato al fatto che l’ospedale hub diventa più grande e complesso. Poi, è chiaro, devi creare una rete territoriale che compensi il fatto che a Frattameggia di Sopra hanno chiuso l’ospedale spoke e i cittadini hanno perso un servizio che prima avevano, sebbene funzionasse appena decorosamente e in cambio costasse uno sproposito. Intanto, con i soldi risparmiati si potrebbe implementare la rete di trasporti da e per l’ospedale hub, che già sarebbe tanto anche senza chiudere lo spoke che a lui afferisce. Poi, madonna da quanto tempo lo dico, basterebbe un gesto piccolo ma di portata epocale: le ULSS dovrebbero assumere in blocco i medici di medicina generale e, perdio, riqualificarli (che in un’epoca come questa, nella quale chiunque può laurearsi in soli tre anni in qualsiasi disciplina, ci vuole anche poco) e metterli al lavoro. Unità territoriali sparse con un internista, un chirurgo, un ortopedico, un radiologo e qualche paramedico: ma unità realmente operative, non solo sulla carta, operative e sottoposte a controlli strettissimi del lavoro svolto. La maggior parte delle afferenze ospedaliere sono legate all’urgenza: l’urgenza minore deve essere portata fuori dagli ospedali! Risolta con costi di gestione e di attesa minori! Una frattura del mignolo di una mano non deve arrivare in ospedale, va diagnosticata e curata sul territorio. E sul territorio va gestita anche l’assistenza domiciliare, dunque di carne al fuoco ce n’è tanta: abbiamo tutta questa forza lavoro inattiva o quasi, la vogliamo sfruttare come si deve o continuiamo a fargli fare i liberi professionisti di ‘sto paio di ciufoli? Senza contare che una parte della formazione dei medici specializzandi potrebbe già essere impostata fin dal principio in questa direzione, con un ulteriore guadagno di personale.
E questo è solo l’inizio: mi fermo qua perché siamo in un diario ospedaliero on-line, non nel sito di un partito politico che sta preparando le prossime elezioni politiche. Anche se in realtà è proprio di politica che si sta parlando: perché il politicante da strapazzo, il cui scopo è sbarcare il lunario del quadriennio, o l’amministratore da strapazzo, il cui scopo è sbarcare il lunario di fine anno, sanno benissimo che scelte coraggiose si tradurranno inevitabilmente nella loro mancata rielezione. Se tu sei il sindaco di Frattameggia di Sopra, e permetti che il tuo ospedale spoke sia chiuso, sai bene che alla prossima tornata elettorale gli elettori non ti rieleggeranno più: e allora fai le barricate, non importa che la scelta sia strategicamente errata perché tra vent’anni sarà morto anche l’ospedale hub del tuo territorio e i figli tuoi e degli elettori non potranno più curarsi. La differenza tra il politicante e lo statista, lo dico spesso, sta nell’impopolarità delle scelte: lo statista fa quelle impopolari e rischia il culo, il politicante lancia le frasi a effetto e poi, come si è visto, fa danni incalcolabili sia sulla breve che sulla lunga distanza. Ecco perché, come dice Matteo, le scelte vengono fatte di nascosto, nelle camere buie e nel più assoluto silenzio: perché se si aprisse un dibattito serio la gente capirebbe in che direzione disastrosa stiamo andando e opporrebbe resistenza. Ma un ospedale aperto vuol dire anche potere che si può gestire con tutto ciò che ne consegue, mi capite o no?
Infine, la questione posta da Matteo circa i motivi per cui un medico dovrebbe non voler lavorare in un ospedale spoke. Che è ambizione sacrosanta e legittima, ma che deve presupporre una realtà scomoda: noi medici non siamo tutti uguali. Come in qualunque altra categoria professionale, ci sono quelli più e quelli meno bravi: negli ospedali hub dovrebbero arrivare solo quelli bravi, gli altri no. Il che presuppone anche che chi lavorerà in un ospedale hub avrà responsabilità parecchio maggiori di chi resterà invischiato nell’ospedale spoke (il che peraltro capita già ora, ma passa sotto silenzio): e allora perché i due dovrebbero essere pagati allo stesso modo? Perché chi mette protesi aortiche in urgenza (anche questo lo dico spesso) deve guadagnare come chi referta la tibia fratturata dello sciatore inesperto? Insomma, noi per primi dovremmo essere pronti a rimetterci in discussione, ad accettare il confronto e, se lo perdiamo, a sopportare che le nostre prerogative lavorative ed economiche vengano riviste al ribasso. Il difficile dovrebbe essere arrivarci, a lavorare in un ospedale hub: tutto il resto, in un mondo ideale, essere sua naturale conseguenza.