(Vi chiedo venia in anticipo: questo è solo un divertissement domenicale, per passare il tempo, mentre navigo ai confini di un esaurimento da insonnia dopo aver ripulito per tutta la notte il vomito di due creature che credevo fossero i miei figli, e invece erano i protagonisti di un moderno esorcismo da virus intestinale).
Durante il mio ultimo turno di urgenza referto le radiografie di un bacino. Le righe scritte sullo schermo del piccì, nella sezione dedicata alle note anamnestiche dei pazienti che afferiscono in Radiologia dal Pronto Soccorso, parlano chiaro: la paziente in questione “mentre scendeva le scale, scivolava e cadeva fino al ballatoio”.
Il problema, è chiaro, qui è della povera signora che si è fatta l’intera rampa di scala fratturandosi il femore. Però, in piccola parte, consentitemelo, anche del lessico usato dal collega del PS. Il quale apre una simpatica parentesi grammaticale: ma perché proprio l’imperfetto? Perché la paziente “scivolava” e non “è scivolata”, visto che l’azione si è svolta in un passato abbastanza prossimo e sono passate solo due ore dal fattaccio? Perché mai il medico di PS (ma anche, nel loro rispettivo campo, l’impiegato del comune, il carabiniere, eccetera) vede la caduta dalle scale all’imperfetto e non al passato prossimo?
Italo Calvino aveva già intuito la natura del problema e denominato questo strano modo di esprimersi “antilingua”. In un articolo pubblicato su “Il giorno” del 3 febbraio 1965, il Nostro si espresse così: «Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se “fiasco” “stufa” “carbone” fossero parole oscene, come se “andare” “trovare” “sapere” indicassero azioni turpi. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente».
Adesso, io non so se anche il medico di PS di cui sopra sia affetto dal terrore semantico di cui parla Calvino, ma una cosa è certa: i medici (i carabinieri, i magistrati, i politici) alle prese con un verbale slittano spesso e volentieri verso quel genere di imperfetto “narrativo” o “pittoresco” che sembra rifuggire qualunque genere di specificazione. In tempi di medicina difensiva, forse, l’imperfetto fornisce all’evento un alone di indeterminatezza che, come avrebbe detto Calvino, libera il medico dalla responsabilità finale dell’evento stesso. Ma perché vi racconto questo?
Come si può leggere su wikibooks.org, per capire meglio l’applicazione dei tempi verbali bisogna ricordare che qualsiasi tempo dà sempre due tipi di informazioni: a) quando succede l’azione (il momento dell’azione) e b) come succede l’azione (l’aspetto dell’azione, il modo in cui si svolge). A differenze dei passati prossimo (“la signora è caduta dalle scale”) o remoto (“la signora cadde dalle scale”), in cui chi legge ha la sensazione precisa che l’azione (in questo caso il cadere dalle scale) sia conclusa rispettivamente da poco o molto tempo, l’imperfetto non specifica il momento del passato in cui è avvenuta l’azione e, soprattutto, non specifica se l’azione è terminata o meno ma si concentra sull’azione in sé: come se la povera paziente fosse ruzzolata per un tempo infinito e/o stesse ancora ruzzolando nel momento in cui l’azione viene raccontata.
Infatti, come sintetizzo dal sito della Treccani, l’imperfetto indicativo indica la simultaneità nel passato rispetto a un momento nel passato, e proprio per questo nella tradizione grammaticale è considerato tempo relativo per eccellenza. Ciò significa che un enunciato con l’imperfetto raramente può star da solo senza riferirsi a un ancoraggio temporale, implicito o no. E sempre per Wikibooks.org, “il ricorso al passato remoto passato prossimo crea insomma nel lettore ascoltatore un’aspettativa per gli scenari precedenti e successivi all’azione espressa; l’imperfetto, invece, la mette a tacere e concentra l’attenzione di chi legge o ascolta sull’azione in sé, colta nella sua durata”.
Il che ha pure senso, se applicato alla comune attività di Pronto Soccorso: il collega urgentista (neologismo tremendo ma tant’è, piace anche a loro) con l’uso dell’imperfetto cerca di concentrare l’attenzione del radiologo sull’azione in sé, anche se in questo modo talora si astiene dal fornire ulteriori informazioni cruciali per il radiologo (per esempio: quanto tempo è trascorso dall’incidente delle scale? Dove ha male la signora?). Insomma, l’antilingua in questo caso fa sorridere come il verbale di un appuntato dei carabinieri ma funziona egregiamente come esempio inconscio di medicina difensiva e, forse, anche per favorire la concentrazione del radiologo, che è notoriamente fugace e parecchio disturbata da internet e dai vari social network con i quali il tapino riempie i buchi della sua giornata di guardia attiva.
Quanto al radiologo, lui non ha bisogno dell’antilingua per pararsi il sedere perché, per definizione, quando il paziente arriva sul tavolo radiologico l’azione del farsi male è sicuramente giunta al termine: quando il tecnico urla il fatidico “ferma senza respirare!”, prima di schiacciare il pulsante dell’erogazione dei raggi X o della Tac, siamo tutti certi che la signora abbia finito di ruzzolare per le scale di casa perché in quel preciso istante ce l’abbiamo lì, agonizzante, sul lettino del telecomandato. Ecco il motivo per cui nei referti radiologici non è previsto l’uso dell’imperfetto ma c’è invece gran ridondanza di avverbi e aggettivi: i vari “verosimilmente”, “discretamente”, “grossolano” e compagnia bella servono appunto a produrre un principio di indeterminatezza laddove il radiologo sarebbe chiamato a misure precise e, se possibile, a fornire una diagnosi che guidi il clinico fuori dall’imperfetto e lo conduca nel mondo iperuranico del presente indicativo. Dove, se esiste, una frattura del femore alla fine va curata: con placca e viti, chiodi endomidollari, protesi d’anca o qualunque altra diavoleria possa inventarsi alla bisogna un ortopedico. Perché, qualunque sia la branca in cui operano, una cosa va onestamente ammessa: gli unici a vivere nel presente indicativo, in ambito medico, sono i chirurghi. Infatti nei referti dei loro atti operatori non troverete fumosi imperfetti ma solo spietati presenti indicativi.
Con qualche errore di ortografia, forse, ma solo presenti indicativi.