I perché del senso di appartenenza

di | 20 Luglio 2012

Tra le varie e-mail che mi giungono settimanalmente ce n’è stata una, in particolare, che mi ha colpito moltissimo. L’ha spedita un collega del nord ovest italiano: confessandomi candidamente di ammirare e invidiare non solo la passione per la mia (la nostra) professione ma soprattutto il senso di forte appartenenza all’ospedale in cui lavoro, che a quanto pare i miei post lasciano trasparire senza veli. Scrive: Io ho la costante impressione che per le alte sfere della mia Direzione non siamo che carne da macello, utili idioti manipolati per i loro scopi personali. E mi chiede da cosa nasca, appunto, questo mio senso di appartenenza; e me lo chiede con quella che a me, leggendo la mail, è sembrata una vena di sottile disperazione.

Io d’altro canto una risposta pronta a fine lettura della lettera non ce l’avevo, e quindi ho dovuto pensarci con attenzione: e la riflessione mi è costata due giorni di pensieri incostanti, infilati in mezzo a pile di referti, riunioni interdisciplinari, file alla cassa del supermercato, docce e attese di prendere sonno.

Alla fine ecco a quali conclusioni sono giunto. Io, di base, non sono uno che le rimostranze se le tiene dentro: il mio primario, che è un sant’uomo, lo sa meglio di chiunque altro al mondo. Ma il mio primario sa anche un’altra cosa: che per quanto vigorose possano essere state le mie rimostranze nei suoi confronti mai e poi mai, mai un solo giorno della mia vita lavorativa, ho pensato di infilare i bastoni tra le ruote sue e della struttura in cui entrambi lavoravamo.

Io, personalmente, ho un rispetto quasi sacrale per il mio lavoro: rispetto che, per estensione, riguarda anche il mio reparto, i colleghi, l’ospedale. Per me il lavoro non è soltanto timbrare il cartellino in ingresso e in uscita, con in mezzo solo faccende seccanti da svolgere nel modo più rapido possibile. No, io lo vedo piuttosto come una fatica buona, da muratore con i calli sulle mani. O forse no, meglio dire fatica da agricoltore: il quale sa bene che il frutto del suo raccolto è appeso ai dispetti di un anticiclone o di una grandinata ed è disposto a correre il rischio e ricominciare daccapo se le cose si mettono male.

Capite bene, quindi, che a vedere le cose in questo modo diventa difficile dire: faccio il mio e me ne torno a casa il prima possibile, e meglio se nel mentre nessuno sa dove mi nascondo così evito le seccature. È da qui che nasce quel famoso senso di appartenenza: perché le mura del mio ospedale io non ho contribuito fisicamente a tirarle su ma di certo negli ultimi dieci anni ho lavorato quotidianamente per rinforzarle. L’ospedale in cui lavoro non è solo il luogo in cui mi guadagno da vivere: è molto di più, è una ragnatela di rapporti costruiti giorno dopo giorno; è facce, persone, situazioni che ho contribuito a creare in prima persona. Così, anche quando non sono d’accordo con la politica della mia Direzione il mio atteggiamento non cambia: io lavoro nel mio ospedale e sono una rotella dell’ingranaggio, ma quello che conta è che il sistema nel suo complesso continui a funzionare.

Però è anche vero che le rotelle non sono tutte uguali: qualcuna è bene oliata, qualcun’altra parecchio arrugginita. A volte mi incazzo solennemente per la tendenza, che credo comune a tutte le Amministrazioni, di confondere la Qualità del lavoro con la quantità di tempo che uno passa in ospedale. Mentre invece la Qualità è altro: è per esempio un reparto che funziona come un orologio svizzero anche se il capo sta via due mesi, o che riesce a produrre professionisti in grado di portar fuori dalle mura dell’ospedale le proprie  capacità lavorative. Qualità è mole di lavoro unita alla buona fattura del lavoro prodotto: che nel nostro caso vuol dire avere il coraggio di firmare un referto conclusivo e non la fuffa di cui sono pieni i referti radiologici che girano per il mondo sanitario italiano. Questa è Qualità, si tratta di valori misurabili e oggettivi: il resto, ripeto, è fuffa spesso sostenuta da un cattivo carattere di circostanza, in un paese nel quale (non mi stancherò mai di ripeterlo) spesso la stima è costruita su questioni di forma e non di sostanza.

Perchè lo dico? Perchè è anche da qui che parte il mio attaccamento alla maglia. Il mio ospedale, in un modo o nell’altro, consapevolmente o meno, mi ha concesso di lavorare in un ambiente di qualità molto elevata. Gli devo molte delle soddisfazioni professionali che mi sono tolto; gli devo gratitudine per aver riconosciuto in modo ufficiale i meriti che posso aver accumulato in questi anni.

Quindi io non so esattamente se in questo caso è nato prima l’uovo o la gallina, ossia se sono stato io per primo a rimboccarmi le maniche o l’ospedale per primo a fornirmi gli attrezzi del mestiere. So per certo una sola cosa: che bisogna credere in ciò che si sta facendo e non pensare di risparmiarsi durante il lavoro di costruzione. Le persone passano: direttori, primari, colleghi, collaboratori. I luoghi rimangono, invece, e con loro l’eredità di generazioni di costruttori che ci hanno preceduti. È a loro che bisogna portare rispetto: con la speranza che lo stesso rispetto, un giorno, possa essere portato anche a noi.

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