Durante un turno ecografico, io e l’infermiere Rodolfo stiamo aspettando di completare la giornata lavorativa: la giovane paziente delle 12.45, dal nome chiaramente extracomunitario, è in lieve ritardo. Io e Rodolfo ammazziamo il tempo chiacchierando di varie amenità, come fanno tutti i pubblici dipendenti ospedalieri, fannulloni come noi, quando un paziente non è puntuale; e all’improvviso sentiamo bussare alla porta. Dico a Rodolfo di non infierire: in fondo è l’ultimo esame, la mattinata è stata persino piacevole, sotto la mia sonda e le sue mani sono passate persone piacevoli con le quali abbiamo scambiato anche qualche sorriso gratis. Rodolfo apre la porta e tutti e due restiamo letteralmente folgorati.
L’ultima paziente, la ragazza venticinquenne extra-comunitaria, è probabilmente la donna più bella che io e Rodolfo abbiamo mai visto (esclusa mia moglie, nel caso improbabile che legga questo post). Deve essere nordafricana: ha la pelle olivastra, gli occhi scuri, i capelli lunghi e ricci, ed è sinuosa come si può immaginare Eva nell’atto di porgere la mela a Adamo. Quando sorride scopre una chiostra di denti candidi: ed è un sorriso che potrebbe uccidere un uomo.
Ma ormai mi conoscete, io sono un ragazzo tutto d’un pezzo: per cui riprendo in mano la mia integerrima professionalità, Rodolfo fa distendere sul lettino l’angelo dal ciel disceso a miracolo mostrare e inizio l’ecografia. Alla fine, come cerco di far sempre (salvo i casi in cui il paziente si alza e se ne va quasi senza salutare, che a noi medici oggi come oggi succede anche questo), spiego alla ragazza quello che ho trovato e fornisco un’interpretazione, che mi auguro congrua e convincente, della sua sintomatologia.
Ma Rodolfo non resiste alla tentazione, perché la ragazza oltre che bella è pure spiritosa; e prima di salutare le chiede da quale paese provenga.
Lei, che parla un italiano quasi impeccabile, dice: Sono del Marocco. Poi tace un istante e aggiunge, come se la precisazione fosse necessaria: Ma sono qui da cinque anni, non sono mica arrivata con un barcone.
E lì, davvero, forse non ho ci capito nulla io. Non ho capito se quella precisazione sia stata un gesto di orgoglio personale, una precisazione puntigliosa di appartenenza sociale o un atto di razzismo al contrario; uno di quelli, tanto per capirci, a cui siamo così abituati noi italiani in queste settimane di battaglie regionali, tra poveracci, in mezzo a tonnellate di rifiuti abbandonati nelle strade e ferrovie ad alta velocità che nessuno, a parte i soliti noti, desidera costruire.
Così, mi è passata davanti agli occhi una scena inedita: quella di un emigrante italiano di inizio secolo scorso, in America, che parlando un inglese maccheronico spiega al vicino di casa ammericano che lui a New York ci è arrivato cinque anni prima, mica a bordo dell’ultimo transatlantico con le valigie chiuse grazie alla doppia mandata di spago. E poi ho pensato che, sul serio, nulla su questo pianeta cambia davvero, nulla ci insegna alcuna lezione, tutto si ripete con stolida pervicacia nei secoli dei secoli.
Così, adesso, in luglio migliaia di albanesi arrivati in Italia sui barconi, negli anni ’90, o almeno quelli che qui da noi hanno fatto un po’ di fortuna, torneranno in vacanza a Tirana o a Valona. Torneranno da ricchi, o almeno da benestanti; sperando che portino sorrisi, nella loro terra, e non la solita supponenza di chi si è appena arricchito.
Sarebbe a dire: come passare dallo zio d’America allo zio d’Albania, direttamente e senza passare dal via.