Noi possiamo anche sorridere, a fronte delle inchieste che tappezzano i giornali di oggi sulle improbabili imprese sessuali di qualche nonnetto della politica, e immaginarci anche noi alle soglie degli ottant’anni con in tasca le pillole della pressione, quelle della prostata e il cialis: ma intanto, mentre sorridiamo, qualcosa si è rotto nel rapporto fiduciario che dovrebbe legarci alle persone cui affidiamo le nostre vite. E se dovessi individuare il problema italiano di questo scorcio di secolo, quello che più di tutti frena la ripartenza dalla crisi, direi che è proprio la mancanza di fiducia dei cittadini: ma non quella che riguarda la ripresa, o la fiducia negli investimenti, o tutte le altre balle di cui si parlava ai tempi in cui la gente già faceva la fame e perdeva il lavoro, ma la crisi non ci avrebbe mai colpito perché la nostra economia era solida e bla bla. La mancanza di fiducia è quella che ognuno di noi ha nel suo vicino: di casa, di lavoro, di parcheggio, di negozio, di provincia. La mancanza di fiducia è terrore che chi fino a ieri ci sosteneva oggi decida che può trarre vantaggio dal fotterci: e il problema, culturale questa volta più ancora che etico, è che fottere il prossimo oggi è più conveniente che sostenerlo.
Se quindi dovessi trovare una giustificazione finale al perché il cittadino viene in ospedale con il timore che il medico avido non gli presti la giusta attenzione, e gli arrechi un danno di cui chiedere cagione, è perché questo atteggiamento di sfiducia e diffidenza noi lo mutuiamo in ogni gesto che caratterizza le nostre giornate: la mancanza di regole, o il loro continuo stravolgimento anche in corso d’opera, crea un’anarchia mentale più che materiale, che divora il sistema dall’interno. Come il cancro, appunto. E lo divora sopprimendo prima di tutto il sistema immunitario del tessuto sociale: che è la solidarietà civile, l’attenzione ai problemi del prossimo perché il prossimo, domani, potremmo essere noi. Come il cancro, appunto, quando il nostro sistema immunitario non riesce più a tenerlo a bada.
La nostra società ha il cancro, ragazzi: e noi siamo sia il cancro sia le cellule divorate dal cancro. Da quando ho raggiunto questa conclusione non mi indigno nemmeno più di tanto se un paziente fa la scenata nel corridoio del pronto soccorso o arriva la denuncia per futili motivi o il telegiornale sforna un episodio di malasanità al giorno: è tutto parte della malattia, del lento erodere del cancro sociale che ci sta mangiando vivi. Succede lo stesso agli sportelli del comune, o in banca, o quando al supermercato la signora con la faccia porcina vi passa davanti con il carrello mentre siete in fila alle casse, e voi in quel momento avete anche due bimbi piccoli a cui badare.
Ma c’è anche un altro aspetto della questione. Perché non so voi, ma io faccio fatica a sperare in un cambiamento: le cose che vedo, e ciò che vivo ogni giorno, non mi aiutano a sperare ma a disperare. Recuperare vent’anni di degrado culturale italiano sarà un’impresa omerica, con ogni probabilità destinata al fallimento: potrebbe salvarci, che ne so, giusto una guerra atomica, un diluvio universale, un 21 dicembre 2012. Un evento terribile che resetti tutto e costringa chi sopravvive a ricominciare daccapo.
Il palliativo, invece, potrebbe essere un cambiamento di mentalità radicale, che comporti prima di tutto l’affidamento delle responsabilità a persone più giovani: quelle che hanno ancora trenta, quarant’anni da vivere, figli piccoli e voglia di investire sul futuro. Non è detto che sia sufficiente, e forse sarebbe davvero solo un palliativo: ma almeno noi quarantenni potremmo guardare in faccia il disfacimento dopo aver provato a combatterlo in prima persona, e non dopo aver assistito impotenti all’opera di devastazione che stanno compiendo eminenti personalità con un piede già nella fossa. Non a caso ieri sera, durante programma della Gruber su La7, ho assistito alla telepromozione in diretta di Mario Monti come nuovo premier: Perfetto, ho pensato. Da un vecchietto di 75 anni a uno di 67.
Un guadagno netto di otto anni.
Hip hip urrà.