Come al solito, le cose peggiori succedono sempre quando si è di turno in pronto soccorso.
E’ una specie di terno al lotto: ti può capitare la bella giornata di sole, con una processione di gente che viene a farsi dare un’occhiata al mal di schiena cronico; o una giornata schifosa, popolata da persone che si lanciano giù a peso morto dai cavalcavia cittadini.
Oggi mi è capitata la seconda possibilità, quella più triste: una signora di cinquanta e rotti anni che ha tentato il suicidio lanciandosi, appunto, dal primo cavalcavia che ha trovato uscendo di casa. Dico tentato perché l’incomprensibile casualità delle cose della vita ha voluto che la signora non sia riuscita a portare a termine il suo progetto: ma l’asfalto delle strade è duro, e vi assicuro che lo spettacolo a cui ho assistito non è da prima serata televisiva.
La considerazione che mi è venuta da fare, durante l’ecografia d’urgenza, è la seguente: i tanti anni che faccio questo mestiere mi hanno insegnato che morire non è facile. Siamo coriacei, noi uomini. Di una robustezza difficile a raccontarsi: specie se pensiamo alle nostre enormi fragilità strutturali. A volte sembra che anche le rese incondizionate (come quella di oggi), le tragiche casualità quotidiane, le terribili malattie che ci affliggono, facciano fatica a rompere la scorza dura di cui siamo fatti.
Ho visto pazienti su cui non avrei scommesso una lira rimettersi in piedi e riprendere una vita normale: ogni volta è una sorpresa infinita. La sorpresa che ci spinge al sorriso, e ci fa tenere duro anche in quelle altre volte, troppe, in cui le cose non vanno per il verso giusto e il medico si sente impotente, di fronte a tutta la insondabile crudeltà della vita.