Quello che segue è un piccolo decalogo scherzoso dell’idiosincrasia che mi evocano talune modalità di comunicazione dopo anni di frequenza altalenante dei più svariati social media. Leggetelo e sorridete con me, consci del fatto che alcune delle modalità elencate coinvolgono, oltre a perfetti semisconosciuti dei quali tutto sommato mi frega ben poco, persone a me molto ma molto care. Alle quali è pertanto consentita la replica più spietata: perché sicuramente anche io coltivo modalità di scrittura irritanti per qualcuno di loro.
10. MI PIACE ESSERE EFFICIENTE, EFFICACE E PURE PROATTIVO. Come sanno ormai anche i muri, l’efficacia è la capacità di raggiungere un determinato obiettivo e l’efficienza la capacità per raggiungerlo sprecando meno risorse possibile. La proattività, a sua volta, è la capacità di anticipare i problemi e di mettere in atto le strategie volte a prevenirli. In questo caso specifico l’irritazione nasce dall’uso strumentale di questi concetti, che in genere è mirato a sottintendere una mentalità moderna, di tipo manageriale e vincente: come se i problemi gestionali, fino a pochi anni fa, venissero invece affrontati con gli stessi criteri che i contadini medioevali adoperavano per prendersi cura dei loro campi di frumento. Fa persino dispiacere dirlo ai manager dell’ultima ora: noi esseri umani siamo allenati alla efficienza, all’efficacia e alla proattività fin dalla nascita, sono concetti che fanno geneticamente parte della nostra comune intelligenza e c’è poco da specularci sopra. Chi si accompagna a un felino lo sa meglio di chiunque altro: i gatti, a differenza dei cani (che hanno un solo obiettivo, cioè l’amore del padrone, e sprecano troppe risorse per procacciarselo), sono istintivamente proattivi. Per cui smettetela di rompere le scatole: se volete ascendere al rango di manager, e non so oggi come oggi quanto vi convenga, piuttosto trovate qualcuno che vi raccomandi meglio di come abbia fatto in passato.
9. LA MUSICA APPLICATA AL QUOTIDIANO: IL RAP E LE SUE VARIANTI, I RITMI LATINO-AMERICANI E GLI HAPPY HOUR, IL TANGO E LA MALEDETTA FISARMONICA. Che ci crediate o no, il rap è nato verso la fine degli anni sessanta: sarebbe a dire che, con buona pace dei millennials, è roba da boomer e quando fu importato in Italia (ufficialmente nel 1993, grazie al contributo di Frankie HI-NGR) era già roba vecchia. Il rap in Italia ha successo perché si possono fabbricare rime un po’ a caso, senza conoscere una sola nota musicale, e soprattutto perché nei testi rap italiani è consentito eccedere nello sport italiano per eccellenza: lamentarsi. Degli amori andati a male, delle famiglie modeste di origine, dei compagni di scuola ricchi e stronzi che adesso sono più povery del rapper ipertatuato, delle compagne di scuole belle e stronze che adesso si mangiano le mani dalla rabbia perché gli sfigatoni delle scuole superiori sono diventati ricchi, famosi e ipertatuati, delle periferie disastrate da cui è partito tutto, eccetera. E sono tutto sommato meno insinceri i tormentoni latino-americani alla Despacito, che ogni estate ammorbano i nostri soggiorni in spiaggia e gli happy hour al tramonto con ritmi terrificanti, tutti uguali, che parlano tutti della stessa cosa: la voglia feroce di scopare a ogni costo (“… quiero respirar tu cuello despacito”). Messaggio parimenti trasmesso anche dal ritmo lento e doloroso del tango: il quale, finché è limitato al ballerino di tango che cerca di sedurre la sua bella con passi lascivi e la rosa stretta tra i denti, all’interno di una balera fumosa, può anche essere tollerabile; ma non lo è più quando il suo dannatissimo tempo binario viene travasato nella musica pop e tradotto in canzoni che hanno la pretesa di accendere il sentimento dell’ascoltatore e invece riescono solo a rompergli i maroni (specie se accompagnate dalla solita, stramaledetta fisarmonica che fuori dai confini francesi, e spesso anche dentro, è davvero uno strumento di rara inutilità). Ricordatevi sempre che basta cambiare una frase e il tanghèro (ballerino di tango) si trasforma in un tànghero (persona rozza, ignorante o goffa, molto villana nei modi). Ci sarà un perché, no?
8. LE FOTO A BRACCIA INCROCIATE. I politici. I medici dei centri privati. Gli imbonitori del coaching. Gli agenti immobiliari sui loro siti aziendali. Tutti in giacca (e spesso in cravatta), il sorriso aperto e le braccia conserte: praticamente un ossimoro vivente. Già: perché, nel caso nessuno ve lo abbia spiegato, le braccia conserte sono un segno di chiusura, di difesa ostile, di protezione degli organi più delicati del nostro torace (cuore e polmoni). Non fate lo stesso errore quando siete a cena con vostro suocero o durante un colloquio con un cliente: lui si accorgerà della chiusura e troverà il modo di farvela pagare (negandovi la figlia o non acquistando nulla). Fatevi un grande favore: pubblicate una bella foto con le braccia aperte, a simulare un abbraccio. Se no siete solo ridicoli, e neanche minimamente originali.
7. LE FRASI A EFFETTO A USO TERZI. Volete mandare a quel paese il collega che ha avuto la promozione al posto vostro? Fatelo, dategli del raccomandato, ma in faccia e non tramite frasi a effetto su FB con il faccione sorridente e sornione di Favino in primo piano. Ce l’avete a morte con il vostro/la vostra ex perché vi ha abbandonato? Smettetela con gli stati whatsapp dove frasi di canzoni strappalacrime campeggiano su foto di struggenti tramonti sul mare: diteglielo e basta, che è uno stronzo/a. Qualcuno vi ha fatto un torto indicibile? Mio Dio, affrontatelo a viso aperto e ditegli quello che pensate di lui. Però, vi supplico, vi scongiuro, smettetela di intasare i social con frasi fatte sulla dura corazza che il mondo vi costringe a indossare, sulla cattiveria degli esseri umani e l’inaffidabilità di amici, o presunti tali, e parenti, che invece tali lo sono per forza. Diteglielo. Fatevi forza e di-te-glie-lo-in-faccia. E che cazzo.
6. QUANT’ALTRO COSA? Il “quant’altro” è l’ultima risorsa delle donne e degli uomini senza fantasia. Si attacca a qualsiasi finale di frase, dal congresso scientifico di prim’ordine alla conversazione da strada col postino. Il “quant’altro” chiude un discorso nel modo più inelegante e generico possibile. Non è un intercalare, è un cosiddetto plastismo: secondo Ornella Castellani Polidori, autrice con i classici due cognomi d’ordinanza de “La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano contemporaneo”, trattasi di forme che “a un dato momento si presentano alla ribalta con un marchio di novità” mentre, al contrario, il linguaggio giornalistico se ne è invaghito in qualità di “pesante burocratismo abituale a capufficio e notai”, che lo usano al posto di “eccetera”, di “altro ancora” e di “e compagnia bella” (che almeno ha il dono di essere, come locuzione, più simpatica). Insomma, parlate e scrivete come un burocrate a metà strada tra un impiegato del catasto e un appuntato della Benemerita, e nemmeno ve ne accorgete.
5. VI È? MA PARLA COME MANGI! Già, perché quel “vi” è solo un merdoso avverbio di luogo: del tutto equivalente a “ci” ma, come recita treccani.it, “di tono più formale”. Tradotto nel linguaggio della strada, e sempre riferito al “vi è”: non è che declamandolo in pubblica piazza o vergando con il medesimo le vostre sudate carte, invece che con il più umile “c’è”, ciò che direte avrà più peso. Farete solo la figura dei pezzenti rifatti, in definitiva, o al massimo del parlamentare ignorante che dallo scranno di Montecitorio, grasso e sudato, cerca di dare un tono al suo cattivo italiano.
4. L’APOTESI DEI SENZA SE E SENZA MA. Cioè la frase regina dei plastismi, sempre per usare il gergo di cui al punto 6. Parente molto prossima del “nella misura in cui” molto in voga negli anni ’70, e parimenti fastidiosa, è una cosiddetta voce polirematica: elementi lessicali formati da più parole dotate di particolare coesione strutturale. Il bello delle voci polirematiche è che possono appartenere a differenti categorie lessicali: funziona sia da avverbio che da aggettivo, e già questo è sufficiente a inibirne l’uso sistematico tanto in voga in questo periodo. E poi, scusate, non vi sentite ridicoli a parlare come un giornalista o un politicante qualsiasi che finge rabbie istituzionali prive di logica nel peggior salotto politico di Rete 4?
3. MA SI CHIEDE DAVVERO SEMPRE TUTTO “PER UN AMICO”? In genere la locuzione “chiedo per un amico” segue un’affermazione intrinsecamente stupida e/o imbarazzante riferita a se stessi. La prima volta che l’abbiamo letto ha fatto sorridere, la seconda pure. Dalla terza volta in poi ogni volta è come camminare con un sassolino nella scarpa: ti devi fermare, cavarti la calzatura e toglierlo. Allo stesso modo, quando ci si imbatte nella domanda retorica che qualcuno pone al fantomatico amico, bisogna fermarsi ed eliminarlo seduta stante dalla lista dei contatti su FB, instagram o twitter. A ben pensarci, il “chiedo per un amico” è una specie di legge della sopravvivenza darwiniana applicata al web: se la usi meriti l’estinzione.
2. NELLE FRASI NON MI PIACE USARE I … PUNTINI SOSPENSIVI. I puntini sospensivi stanno dilagando, nel mondo della scrittura, peggio del coronavirus. Dice la Treccani: “i puntini di sospensione si usano per segnalare che il discorso viene sospeso, in genere per imbarazzo, per titubanza o per allusività”. Però, mioddio, non è che tutto, ma proprio tutto quello che scrivete può veicolare imbarazzo, titubanza o allusività. Ci sarà un argomento che non vi imbarazza? Un tema che non usate per alludere a qualcos’altro? Una riflessione sulla quali non siete titubanti ma assolutamente decisi a imporre il vostro punto di vista? Le regole sull’utilizzo dei puntini di sospensione sono poche e semplici: 1) Sono 3 di numero, non uno in più né uno in meno, e non bisogna lasciare spazi vuoti tra essi. 2) Non bisogna abusarne perché… abusarne è sintomo di cattivo uso dei… puntini sospensivi. 3) I puntini sospensivi vanno bene in un dialogo, perché uno dei due dialoganti può avere un attimo di esitazione che va fatto notare. Ma in un discorso più generale che ci azzeccano? Forse, chissà, lo scrittore non sapeva come terminare la frase, o lasciare aperta la riflessione per il lettore… 4) I puntini sospensivi, comunque voi vogliate maltrattarli, restano sempre e comunque segni di interpunzione e quindi dopo l’ultimo dei tre va lasciato uno spazio. Insomma, liberatevi della vostra timidezza patologica, eliminate i puntini sospensivi e osate la sobrietà estrema del punto finale o il coraggio adolescenziale del punto esclamativo!
1. LE MALEDETTE FACCINE NEI COMMENTI SU FACEBOOK. Gli emoticons vincono la gara dell’idiosicrasia, e di parecchie lunghezze sul resto dei partecipanti. Lo sapete anche voi: una delle cose belle dei social è che in talune circostanze, grazie alle “faccine”, la scrittura che abbiamo imparato a scuola sale di livello, diventa scrittura 2.0 e assume anche la forma della comunicazione orale (che è caratterizzata dalla gestualità e dalla mimica facciale). Il che rappresenta un indiscutibile vantaggio, se non si può dialogare faccia a faccia con l’interlocutore, perché l’uso delle emoticon permette di inserire elementi espressivi nei testi scritti trasmettendo in modo più sincero le emozioni che proviamo. E, in modo altrettanto cruciale, può modificare la percezione che gli altri hanno di ciò che abbiamo scritto. Faccio un esempio pratico, mutuato dalla mia decennale esperienza ferrarese. Se io scrivo a qualcuno: “Ca tiena un cancar!” gli sto letteralmente augurando, per il tramite di una frase assai ingiuriosa, un brutto male e quindi una fine dolorosa. Ma se gli scrivo: “Ca tiena un cancar! :-)”, aggiungendo l’emoticon del sorriso, il mio interlocutore può comprendere senza grossi dubbi che la frase ingiuriosa in realtà è come una pacca sulla spalla tra amici, o una locuzione che può persino manifestare apprezzamento e rispetto (per esempio, di fronte a un passante impossibile, il giocatore di tennis avversario, sempre nativo di Ferrara, potrebbe dirti: “Sa ti è brav, ca tiena un cancar!”). E fin qui tutto bene, abbiamo capito che gli emoticons sono utili e a volte persino determinanti nell’evitare incomprensioni tra perfetti sconosciuti che dialogano su un argomento X. Il problema si genera quando il dialogo sale di livello, uno dei due (più competente, più allenato alla dialettica e alla logica o, semplicemente, più intelligente dell’interlocutore) sbilancia l’altro e l’altro, messo nell’angolo, tira fuori l’artiglieria contraerea delle faccine. Esempio tipico:
Interlocutore A: “Il tale articolo scientifico, pubblicato sulla rivista più prestigiosa della galassia, afferma che il coronavirus deriva dalla mutazione genetica del virus alieno GZR-678-MMMH, giunto sulla Terra con l’astronave precipitata nel 1918 a Tunguska, in Siberia”.
Interlocutore B: “Si, ma non è che la rivista scientifica più prestigiosa della galassia può sapere proprio tutto tutto ;)”
Oppure:
Interlocutore A, dopo aver espresso con la massima logica possibile il proprio punto di vista, sostenendolo con fonti inoppugnabili: “E quindi questa è la mia posizione sull’argomento.”.
Interlocutore B, alla fine di una sfilza di fallacie logiche che in genere è facile, sebbene dispendioso in termini di tempo, smascherare: “La tua posizione sull’argomento è errata per questo, questo e questo motivo. ;););)”. Oppure: “Sarà, ma tu mi sembri un gran presuntuoso ma io resto del mio parere. ;)”
In buona sostanza, l’emoticon sorridente o che fa l’occhiolino è un auto-disinnescatore di imbarazzo: quando uno è letteralmente con le spalle al muro, e non più ha argomenti per ribattere, non trova migliore soluzione al problema che ostentare distacco dal problema stesso e dall’interlocutore che lo ha messo in quella posizione. L’emoticon diventa allora uno stendardo di superiorità, se non intellettuale, quantomeno morale: del tipo “non vali la pena della discussione ma non voglio che tu creda che io sia arrabbiato/a con te, e sono talmente superiore che te lo dico con ironia”. A quel punto le scelte sono due: chiudere la discussione seduta stante, perché persone del genere non meritano nemmeno la fatica di ottenere l’ultima parola, oppure passare alle offese dirette, anche a rischio di manifestare tutto intero il proprio disappunto. Il bello di questi personaggi è che alla fine ti tolgono l’amicizia e ti bloccano, però poi non riescono a resistere e ti sbloccano, così possono tornare a leggere le cose che scrivi ma cercando di passare inosservati. Una tenerezza, insomma, degna di una favola dei fratelli Grimm.