In questo mese di agosto ho ricevuto molte mail. Da parte di colleghi, ma soprattutto da non addetti ai lavori, preoccupati per la china che sta prendendo il futuro del sistema sanitario nazionale. Io non manco di chiedermi perché vengano poste domande del genere a un emerito signor nessuno come me e non, per dire, a un sindacalista, al sindaco della propria città o a un amministratore politico di vario genere e grado; ma per adesso faccio finta di niente e rispondo alle domande con un post che ho scritto in luglio, prima delle ferie, e che per vari motivi avevo deciso di non pubblicare. Eccolo di seguito: scoprirete che avevo visto abbastanza lungo, per essere uno strutturalmente e congenitamente miope.
La recente vicenda greca, con referendum annesso, ci ha impartito due validi insegnamenti: che certe volte il rischio vale la candela e che spesso anche vincere formalmente non vuol dire vincere sostanzialmente. Insomma, la politica è diventata così complessa che diventa difficile togliere i piedi dalla melassa appiccicosa in cui, spesso nostro malgrado, teniamo i piedi. Così, anche se a volte si arriva tanto vicini al baratro che il rischio è l’unica opzione possibile, se uno davvero è determinato a salvarsi la pelle, correre rischi può rivelarsi inutile: da cui il dogma sindacale italico del limitare i danni che va tanto di moda in questi tempi di crisi.
Traslando la vicenda sulle nostre sponde marine, e riducendo a paradigma del tutto il mondo del sistema sanitario nazionale, direi che pur non essendo vicini al baratro ci stiamo avvicinando parecchio, e di gran carriera. Le scelte individualistiche di chi ha deciso che tutto sommato la sanità è un buon cavallo da corsa per le proprie ambizioni personali rischiano di mandare tutto a catafascio. Ma andiamo per ordine.
Una volta c’erano i partiti politici, ve li ricordate? La Democrazia Cristiana, i Partiti Comunista, Socialista, Repubblicano. Il Partito Socialdemocratico, con quegli improbabili segretari miopi da 3 punti percentuali che tenevano in scacco il governo del paese. E noi li criticavamo. Li deprecavamo. Li consideravamo rifugio di peccatori, avelli di perdizione, fucine di vizi nazionali. Avremmo dato fuoco alle loro sedi. Abbiamo tirato le monetine ai loro capibastone, festeggiato nelle piazze lo svaporare improvviso della loro odiosa sicumera di padroni del vapore.
Poi però è arrivato il tempo degli uomini soli al comando, esperienza che noi italiani amiamo replicare a intervalli più o meno costanti perché geneticamente incastrata nel nostro DNA: noi possediamo il codone dell’uomo-forte, l’RNA messaggero dell’uomo-della-provvidenza. Così il partito politico è diventato il movimento dell’uomo-forte di turno: via i simboli con cui eravamo cresciuti, a botte di tribune elettorali in bianco e nero con i vecchi politici occhialuti che fumavano come ciminiere, e dentro le liste con i nomi del padrone a caratteri cubitali. Inevitabile lo smottamento politico: una volta nei partiti c’erano le correnti che, nel bene e nel male, erano costrette a reciproci equilibri, a compromessi bizantini da prima repubblica; da allora in poi, invece, i cerchi magici, i lothar, gli uomini di fiducia. Niente più idee, posizioni da ricomporre con faticosa arte politica: solo signorotti del borgo, valvassori e valvassini. E servi della gleba. Infatti dopo Tangentopoli persino i lanzichenecchi della carta stampata, che fino a quel momento almeno formalmente si erano tenuti al di sopra delle parti, sono diventati fanteria d’assalto.
Adesso, a fine campagna elettorale, non vince più un movimento politico: vince l’uomo-forte, e al massimo chi partecipa ai festeggiamenti è il suo entourage. E se a vincere è un solo-uomo, come è facile inferire, la democrazia è fottuta. Interrata. Chi non è d’accordo con l’uomo-solo-al-comando va fuori dalle balle: la nuova legge elettorale, per chi non lo avesse compreso, va proprio in questa direzione. Se i cittadini mi vogliono, Dio lo vuole: ce lo hanno insegnato anche le ultime inedite frontiere politiche secondo le quali, balla colossale e foriera di futuri danni a non finire, ognuno vale uno. Il problema cruciale allora non è più la cosa pubblica, ma diventa la cosa privata. La corsa alla rielezione. L’accaparramento dei posti di potere. Il maquillage ai servizi, affinché tutti possano dire che l’uomo-solo-al-comando merita la delega totale al nostro benessere, quello che noi stessi gli abbiamo affidato nel silenzio menzognero delle urne elettorali. Non importa che i tecnici, i decisori intermedi, gli addetti ai lavori abbiano idee differenti: non siete d’accordo, dunque fuori dalle balle. Tanto, di decisori intermedi disposti a eseguire gli ordini senza discutere se ne trovano a pacchi. La seconda repubblica non è mai stata terra di uomini d’ingegno, e se è per questo neanche di uomini orgogliosi.
Quindi fin d’ora non lamentatevi, cittadini, perché nessuno di voi avrà diritto di lamentarsi quando il palco crollerà e il re tornerà a essere, per tutti, nudo. Non potrete lamentarvi se i vostri figli non impareranno nulla a scuola, o se le strade saranno piene di immondizia. Non potrete lamentarvi se un giorno qualcuno verrà a dire ai vostri medici come fare il loro lavoro, specie se gli indirizzi della politica andranno in direzione opposta rispetto a quelli del volgo.
L’ho detto e mi piace ripeterlo, anche se ormai non nutro più nessun genere di speranza sull’argomento: questo è il momento dei decisori intermedi. Mai come ora avremmo disperato bisogno di figure intermedie in grado di mediare tra gli interessi del vertice e quelli della base, aiutando il vertice a comprendere le modalità con cui è possibile, perché è di fatto ancora possibile, associare la lungimiranza politica al successo elettorale. In sanità potrei parlarvi di direttori generali, amministrativi, sanitari: figure schiacciate come cachi tra il martello della politica e l’incudine della vita reale. Ecco, io vorrei dire loro che il baratro è vicino, noi operatori sanitari lo sentiamo con una chiarezza che sfugge al resto dei cittadini, e che forse, dico forse, potrebbe essere giunto il momento di un azzardo. Di assumere posizioni impopolari, sul breve periodo, ma in grado di salvare il salvabile. Di decidere se è meglio essere dimenticati un secondo dopo aver raggiunto l’età pensionabile, dopo aver galleggiato a mezz’acqua per una vita intera, oppure, come è accaduto e ancora può accadere, essere ricordati per il proprio lavoro coraggioso e la generosa lungimiranza che è propria dei grandi spiriti. Decidere finalmente che la propria personale carriera non vale un primario sbagliato, che magari molla il campo alla prima difficoltà lasciando un intero ospedale in braghe di tela. Decidere che è possibile lasciare a un primario competente libertà di azione e ottenere ottimi risultati, piuttosto che tenere in piedi un fantoccio, uno yes-man che esegue gli ordini con precisione svizzera, ma diventa di grande imbarazzo anche per l’ultimo specialista arrivato nel suo reparto (se aveste idea, mio Dio, se solo aveste una lontana idea).
In definitiva, la gigantesca colpa della politica attuale è quella di aver dimenticato che i servizi, sanità in testa, non sono un trampolino di lancio per ambiziosi né merce di scambio per politicanti corrotti e beoti. I servizi, per definizione, servono a migliorare la vita dei cittadini che pagano tasse sostanziose (e anche dei furbi che non le pagano). Andatelo a dire, già che ci siete, anche ai grandi statisti che negli ultimi anni hanno affossato tutto: servizi, domanda interna e lavoro. Tra qualche anno, quando si spera che tutti avranno capito come stanno veramente le cose in questa fogna che ci ostiniamo a chiamare Europa, temo che i Piazzali Loreto si sprecheranno.