Ho scoperto una ricetta per disfarmi dello stress lavorativo, del nervoso che mi viene quando le cose non girano come vorrei, quando sono così rompipalle che persino i colleghi e i tecnici, per non dire mia moglie, mi girano alla larga.
Insomma, guadagno casa, magari qualche minuto prima che i bambini tornino da scuola, scaccio come un insetto fastidioso la tentazione di prendere in mano un libro e studiare quel caso difficile che, con tutto l’impegno, non sono riuscito a decifrare nella mattinata infame che mi lascio alle spalle, inspiro profondamente, metto su Vivaldi o Beethoven e, udite udite, mi metto a fare il pane. Si, avete capito bene: il pane, il pane casalingo, quell’alimento bianco e croccante fuori e morbido dentro che si cuoce in forno e che si mangia a colazione, pranzo e cena.
E allora prendo la farina, la peso con cura, ci affondo le mani dentro come se fosse neve. Poi preparo a parte un’orrida mistura di acqua tiepida (presa da una bottiglia, preventivamente bollita o fatta riposare per qualche ora in un bacile, perché quella appena presa dal rubinetto sa di cloro e rovina il risultato finale), sale, lievito e zucchero, che aiuta la fermentazione dei lieviti. E i lieviti, che meraviglia. Quel panetto morbido dal colore indefinibile (per citare un amico foggiano, è d’u kelòre d’u cane quanne fuje, il colore incerto del cane che scappa veloce), l’odore acidulo, che quasi si scioglie tra le dita quando lo afferri. E’ una cosa viva, il lievito, che rende vivo anche il tuo pane.
Poi impasto tutto. Prendo tutto il tempo che occorre, mi impiastriccio le dita di pasta filante, la sento diventare sempre più compatta via via che la malmeno e la schiaccio a tempo di musica, fino a che diventa un panetto bianco e liscio e rotondo.
A quel punto sto già meglio, buona parte della rabbia è svanita, svaporata, e comincio a guardare al mondo con occhi più allegri. Arrivano i bambini, stanchi e felici e affamati, gli faccio vedere il panetto di pasta filante, poi lo mettiamo in una terrina e lo copriamo con il canovaccio. Lascio che decidano loro dove deve riposare, ossia lievitare: un luogo tiepido e buono della casa.
Dopo qualche ora tutti e tre andiamo a dare un’occhiata: è accaduto il miracolo, il panetto è diventato enorme, quasi straborda dalla terrina. E fa come le lumache quando gli tocchi l’antenna: tolto il canovaccio si ritrae, come se si vergognasse di essere guardato. A quel punto accendo il fuoco, faccio dare ai bimbi un’altra remenada al panetto e lo rimettiamo nella terrina. Intanto il forno si riscalda, il panetto lievita ancora un pò e noi ceniamo tutti insieme. A fine cena prendiamo il panetto, gli diamo la forma desiderata e lo ficchiamo nel forno: il tempo che i bimbi guardino i venti, massimo trenta minuti quotidiani di cartoni animati che le leggi ferree di casa Gaddo consentono ai minori e il pane è quasi pronto. Ogni tanto vado a guardarlo mentre cresce, si dora in superficie e prende davvero l’aspetto e l’odore del pane: e a momenti mi commuovo, ho la sensazione che fare il pane sia un gesto sacro ed eterno, che abbia centomila volte più valore quella forma dorata che cuoce in forno che il mio lavoro di ogni giorno in ospedale.
Poi i bimbi si lavano i denti, infilano il pigiama e prima che io gli legga la storia serale a letto andiamo a tirar fuori il pane cotto dal forno: e facciamo grandi progetti sulla colazione della mattina dopo, io voglio una fetta di pane con la nutella (il grande), io con il miele (la piccola, che è biologica e OGM-free), io con la marmellata (la mamma), mentre io so che domattina avrò solo voglia di un litro di caffè nero, bollente e amaro, e di cominciare il mio lavoro in reparto.
Grazie anche al pane cotto in casa la sera prima, sono sicuro che avrò un sorriso in più per i pazienti.