Questa è la storia, breve e intensa, di un paziente stronzo. Uno di quelli che nessun medico vorrebbe mai curare. Uno che non vorresti nemmeno come vicino di casa, perché sicuramente trasformerebbe le riunioni di condominio in storie dell’orrore alla Stephen King.
Il peggior paziente del mondo viene operato a un polmone: dopo aver fatto smadonnare un intero reparto di chirurghi e pneumologi, dai quali pretendeva tutto e subito. Come talora capita, l’intervento è impeccabile ma il decorso post-operatorio no: e nel suo torace si forma un empiema pleurico, ossia una specie di sacca purulenta che lo riduce in condizioni pietose.
Dopo vari tentativi terapeutici, liti con le infermiere, minacce di ritorsioni medico-legali e tutto quanto di sgradevole un paziente può rivolgere alla struttura ospedaliera che lo ospita, il chirurgo mi chiama e mi chiede di mettere un drenaggio in quell’empiema pleurico. Non prima di avermi avvisato: E’ un paziente difficile, stai molto attento.
Io, che sono un ottimista, lo accolgo con un sorriso in tac. Mi siedo accanto a lui e gli spiego cosa dovremo fare. Lui non è messo bene: febbre alta, colorito cereo, non sta nemmeno in piedi. Dopo avermi ascoltato replica che per nessun motivo al mondo si farà mettere le mani addosso da me. Ci sono altri modi di aspirare l’empiema, mi dice. La sua manovra è pericolosa, e io non voglio morire in questo modo.
Pazienza, gli dico. Se cambia idea mi trova qua.
E la mattina dopo, forse perché le sue condizioni sono ancora peggiorate e si teme il peggio, il paziente cambia idea. Torna in tac, io mi risiedo accanto a lui e gli rispiego cosa faremo. Punto per punto. E gli dico anche quello che dico a tutti i pazienti che arrivano in tac per procedure interventistiche: E’ qualcosa che dobbiamo fare insieme, lei e io. E ho bisogno del suo aiuto, non si metta in testa che io faccia tutto da solo.
E il paziente stronzo, miracolo, mi aiuta. Stringe i denti quando uso i dilatatori, il 7, poi l’8, il 9, il 10; fino al 14 che, credetemi, non è proprio sottile come uno stuzzicadenti. Stringe i denti quando infilo il drenaggio, stringe i denti quando comincio ad aspirare la schifezza che ristagna dentro l’empiema. Durante tutta la procedura gli comunico un istante prima quello che sto per fare: e lui mi appoggia, detta i tempi, mi chiede di continuare o di aspettare.
Alla fine la procedura dura quasi un’ora: che è davvero tanto, per un drenaggio toracico. Quando è di nuovo sul letto gli stringo le mani, come sa bene Lungalanotte, gli dico che andrò a trovarlo in reparto e che al prossimo controllo tac starà dieci volte meglio di ora. Non sto mentendo, non lo dico per fargli coraggio. Ho infilato tanti drenaggi in toraci disastrati dall’infezione, ed è sempre successa la stessa cosa: il miracolo. Per inciso, non racconto mai balle ai pazienti. Perché se io fossi al posto loro mi incazzerei parecchio.
E lo rivedo, infatti, al controllo tac. Dopo due giorni e dopo altri quattro. La prima volta parliamo: sta già molto meglio, la febbre è scesa e lui si sente più tranquillo. La seconda volta mi avvisa il chirurgo perché io sono di guardia in pronto soccorso. Per favore, vai a seguire tu l’esame, mi chiede; e io vado. Non lo portano in tac con il letto ma con la seggetta a rotelle: capisco che abbiamo finalmente scollinato. Non ha più bisogno di essere spostato a braccia, ma quasi quasi dal lettino ci scende con le sue sole forze. E poi, quando ha messo giù i piedi, mi fa la domanda che nessuno avrebbe mai potuto prevedere.
Dottore, la posso abbracciare? mi chiede con un mezzo sorriso.
Io annuisco e ci abbracciamo, sotto lo sguardo un po’ imbarazzato di infermieri, tecnici e portantini.
Poi vado in bagno a raccogliere le idee. Mi guardo allo specchio e per un attimo, ma solo per un attimo, mi chiedo se tutto questo servirà a qualcosa. Poi dal pronto soccorso mi chiamano al cordless: sta arrivando un’altra urgenza.
Il bello di questo mestiere è che non c’è tempo per pensare. Solo per ricordare: ma dopo, molto dopo, nel silenzio del proprio letto o sotto lo scroscio della doccia serale.