Il piano di francoforte

di | 1 Dicembre 2006

Una gentile signora ha fatto nel mio reparto una risonanza magnetica del ginocchio. Ho parlato con lei prima dell’esame (per capire quale fosse il problema clinico e come dovessi impostare lo studio) e dopo (per rassicurarla circa le condizioni dei suoi menischi e legamenti); lei mi ha ringraziato ed è andata via.
Qualche giorno più tardi la signora mi ha cercato per dirmi come era andata a finire: la visita dell’ortopedico, la programmazione di un intervento in artroscopia, la cortese richiesta di poter fare con me l’esame di controllo dopo sei mesi (cosa purtroppo non garantibile perchè i turni sono variabili e gli appuntamenti li da’ il centro prenotazioni, ma di sicuro ci si può impegnare perchè la richiesta sia esaudita. In fondo fa sempre piacere che un paziente rimanga così soddisfatto da cercarti di nuovo, anche quando non ci guadagni nulla).
Una cosa però mi ha colpito: dopo tutte le mie riflessioni tecniche e cliniche su come condurre la risonanza magnetica e come refertarla, su quale terminologia usare perchè tutto fosse chiaro all’ortopedico, la paziente mi ha riferito (un po’ imbarazzata): Sa, l’ortopedico non ha nemmeno letto la sua risposta ma ha solo guardato le lastre.
Lo so che questo è un argomento che ho già trattato e che così rischio di ripetermi, ma vi prego di sopportare il fastidio perchè si tratta di un punto fondamentale e imprescindibile della professione medica.
Un radiologo (un cardiologo, un ortopedico, qualunque altro medico) compie nel corso della sua formazione un percorso preciso e spesso ultraspecialistico; e questo percorso costa fatica e impegno perchè la medicina è un argomento complesso e costituito da miliardi di sottoargomenti uno più duro da digerire dell’altro. Dietro un mio referto di risonanza magnetica c’è un mondo di nozioni teoriche che vengono messe in pratica: come si produce l’immagine, che sequenze ho usato, perchè ho usato quelle e non altre, cosa stavo cercando e come l’ho interpretato. A volte anche un radiologo, cioè uno che lo fa per mestiere, si trova in difficoltà perchè ogni paziente è diverso dall’altro e non sempre quello che su una immagine radiologica sembra bianco è bianco davvero e quello che sembra nero è sicuramente nero.
Tutto questo per dire che se talvolta incontro difficoltà io, che faccio questo lavoro da tredici anni, non oso neanche immaginare quante ne abbia un collega che fa un altro mestiere (un ortopedico vi sistema le fratture; vi risolve problemi articolari; nessuno gli insegna la radiologia, nè durante i corsi di specializzazione nè dopo). A questo punto, ignorare un referto radiologico non è solo un gesto maleducato verso un collega che ci ha messo tutto il suo impegno: no, è soprattutto un gesto di sconsiderata superficialità verso il paziente, che ha pagato non solo per le immagini ma soprattutto per il referto. E’ un atto di presunzione cretina, quasi un’omissione di soccorso: e mostra un presunto professionista per quello che è, ossia un professonista senza troppa professionalità .
Ma che volete, accanto a colleghi che vengono a cercarci per trovare un conforto visivo ai loro dubbi diagnostici (e per fortuna sono la maggioranza) c’è sempre il fenomeno di turno: il neurochirurgo, tanto per dirne una recente a titolo di esempio, che mi entra in tac e mi chiede: ma avete fatto l’esame secondo il piano di francoforte? Perchè io sono abituato a guardarlo così. Sarebbe come irrompere in sala operatoria, prendergli il polso e dirgli: sai, mica mi piace come stai trapanando questo cranio.
Credete a me: diffidate di questa gente. Sono pericolosi quasi quanto il dottor House nei suoi momenti migliori.

Lascia un commento