Da piccolo, sto parlando di quando avevo sette, otto anni al massimo, mi piaceva da matti la mia bicicletta verde smeraldo: una bestia talmente enorme per le mie gambette secche di allora che quando mi fermavo ero costretto a venir giù dalla sella per non rovinare vergognosamente a terra. Ma andava veloce come il vento, la mia Atala verde smeraldo, se solo tenevo duro per le prime pedalate: e il vento sul viso mi asciugava tutto il sudore dello sforzo di metterla in moto.
Con la mia enorme bicicletta andavo spesso in pellegrinaggio al ponte sull’autostrada A1: che passava, e ancora passa, a pochi chilometri dal centro del mio paesello natio. Non rimanevo molto lì, attaccato con le mani alla grata di protezione: mi bastava guardare per qualche minuto le automobili che sfrecciavano, sotto di me, dirette altrove; e già mi sentivo meglio.
Come amano dire alcune delle persone che mi hanno conosciuto meglio, o così credono, sono sempre stato uno spirito un po’ inquieto. Uno di quelli con il fuoco sotto il sedere, per capirci; uno che qualunque posto va bene per viverci, ma poi nessun posto è davvero casa tua. Uno di quelli che, se non avesse una famiglia, ogni quattro o cinque anni si sradicherebbe e andrebbe a cercar fortuna altrove, rimettendo tutto in gioco.
Adesso, che con gli anni e l’inevitabile oggettività di giudizio legata alla lontananza ho capito un po’ di cose in più sulla mia terra di origine, ho fatto la pace con quei luoghi antichi. Aver studiato una storia alternativa a quella offerta dalle versioni storiografiche cosiddette ufficiali mi ha persino consentito di riguadagnare qualche briciola dell’orgoglio perduto, e di guardare al mio passato senza sentirmi inadeguato o dovermene vergognare. Dirò di più: mi sento in colpa per essermene andato via e non aver restituito nulla, o poco più, di quello che mi è stato dato.
Ma il bambino che sul ponte dell’autostrada guardava le automobili sfrecciare, desideroso di seguirle lungo quel serpente di asfalto che si srotolava fino all’orizzonte, non lo posso cancellare. Quel bimbo è ancora lì: con gli occhi lucidi, il magone in gola, la certezza inspiegabile, senza pezze d’appoggio, che sarebbe stato solo questione di tempo e poi tutto si sarebbe risolto per il meglio. Quel bambino non sapeva che strada avrebbe preso e dove quella strada lo avrebbe condotto, alla fine di uno sterminio di curve, salite e discese, incroci pericolosi, code in tangenziale. Non sapeva che sarebbe diventato medico, che la Radiologia avrebbe avuto un posto in prima fila nel suo cuore, che così tante persone lo stessero aspettando per dividere un pezzo di autostrada o, che dico, per arrivare insieme fino al casello finale. Ma aveva la fiducia dissennata nel futuro degli sconsiderati; o quella dei disperati.
E’ questo che voglio dire a Guglielmo, che ieri mi ha scritto una e-mail dolente e bellissima sul suo passato e sul suo futuro. Ognuno di noi ha un ponte sull’autostrada che lo proietterà verso il futuro, e ognuno di noi aspetta il momento buono per andarsene. A volte la fuga non è la strada giusta, ma a volte è l’unica possibilità di sopravvivenza che ci offre il destino. A volte si resta lontano, a volte si ritorna. Ma la fiducia nel futuro, beh, quella dipende solo da noi. Se vorrai invecchiare felice in quella casa sul lago di cui tanto mi hai parlato, caro Guglielmo, dovrai aspettare: è inevitabile. Ma il bambino che è dentro di me, e che tanti anni fa guardava le automobili sfrecciare sulla A1, mi dice che io, nella mia casa sul lago, ci invecchierò felice.
Spero di cuore che anche il tuo lo dica, a voce alta. E che tu lo senta.