Ve ne ho parlato già qui: c’è una mia collega, anzi una mia cara amica, che da poco tempo si è trasferita in Scandinavia e adesso lavora lassù, in lande fredde e poco popolose che pure esercitano sulla mia fantasia di uomo mediterraneo un fascino indicibile (io sono mediterraneo per un puro accidente del caso, credo: devo essere sfuggito alla cicogna a metà strada, mentre mi conduceva in Danimarca o in Svezia).
La mia amica mi ha scritto da poco per comunicarmi un evento storico: nel suo nuovo ospedale un collega ha comprato la stessa macchinetta per caffè espresso che ho nel mio studio. Il profumo del caffè, mi ha detto, le ha fatto venire le lacrime agli occhi per la nostalgia.
E io la capisco, eccome. Le macchinette per il caffè rappresentano un altare intorno al quale noi radiologi (almeno quelli del mio reparto) officiamo rituali quotidiani. A partire dalla scelta della cialda colorata (“Vuoi un caffè forte o leggero oggi?): io, che pur essendo mediterraneo per caso del caffè sono un autentico paranoide, mi sono portato da casa le tazzine e le riscaldo prima dell’uso sotto il getto dell’acqua bollente.
In reparto non abbiamo tanto tempo libero per i caffè, intendiamoci: ecco perché quando capita (a metà mattina, al ritorno dalla mensa) bisogna fare le cose per bene. Il caffè non si può bere in piedi, di fretta: bisogna sedersi, mettersi comodi. E poi bisogna parlare.
Io dico sempre che nel mio reparto i rapporti tra le persone funzionano in modo degno proprio perché abbiamo preso l’abitudine della pausa caffè in spazi condivisi, e perché in quella pausa parliamo molto tra noi: non è un caso che i colleghi con maggiori problemi personali siano proprio quelli che non condividono con gli altri questo genere di intermezzo lavorativo. Non bisogna sempre parlare di massimi sistemi o dei problemi sanitari e organizzativi che ci affliggono: a volte è sufficiente lasciare che le parole vengano fuori dalle nostre labbra e rimangano lì, sospese nell’aria profumata di caffè come palloncini colorati il cui unico scopo è la gioia degli occhi di chi li guarda. Insomma, con gli anni ho imparato che non è sempre necessario dare corpo e sostanza a un discorso. A volte è sufficiente aprire un canale di comunicazione, al resto ci pensa la pausa caffè.
La mia collega, la mia carissima amica, mi manca ancora: è vero che lo spazio ospedaliero è uno spazio plastico, e che quando uno va via il vuoto viene riempito in fretta da altre persone o altre situazioni. Ma a volte non succede così. Quelle volte il vuoto non è solo nello spazio ospedaliero, è anche dentro di te. Così, ogni volta che stringo nelle mani la tazzina di caffè calda e fumante, penso a lei. Consolato dal pensiero che adesso, con la nuova macchinetta da caffè, anche lei farà lo stesso.
Però, tesoro, mi raccomando, poco zucchero nel caffè. Che poi il caffettino perde il suo aroma.