Questa è una mail inviatami recentemente da Francesco, giovane radiologo, che con il suo permesso mi piace condividere qui sul blog.
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Ciao Gaddo,
dopo diverso tempo che leggo il tuo blog ho deciso di scriverti una mail per condividere alcuni pensieri e per raccontarti alcune cose. Sono stato uno specializzando che ha frequentato il tuo reparto anni addietro (anche se al tempo ti ho seguito poco perché sinceramente la tua conoscenza in molti argomenti intimoriva parecchio un povero specializzando del secondo anno) e leggendo alcuni tuoi aneddoti è divertente ritrovare alcune situazioni ed ambienti che ancora ricordo.
Quando mi sono specializzato ed ho iniziato a lavorare in un reparto ospedaliero ero animato dal “fuoco sacro” del bravo medico. Durante il turno TC ad esempio pretendevo che il TSRM mi chiamasse dalla sala di refertazione per potermi presentare al paziente (“Buongiorno, sono il dott. XYZ. Sono il medico radiologo che si occuperà del suo esame”).
Mi occupavo personalmente di:
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Accertare dell’identità del paziente.
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Verificare che il paziente avesse compreso il tipo di esame a cui stava per essere sottoposto (cosa per nulla scontata).
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Controllare le indicazioni e le eventuali controindicazioni all’esame e compilare il consenso informato.
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Pianificare le fasi della scansione.
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Dosare il MdC per quantità e velocità del flusso a seconda della qualità della vena riferita dall’infermiera e della tipologia d’indagine.
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Verificare eventuali situazioni di emergenza misconosciute (embolia polmonare, trombosi venose, versamento pleurico/pericardico, aria libera endoaddominale)
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Andare dal paziente a verificare il suo stato di salute una volta terminato l’esame.
Non ho mai lasciato che tecnico ed infermiera iniettassero del MdC senza che io fossi presente dietro al vetro piombato. Capirai meglio di me che di fronte a questa presumo buona prassi il tempo per refertare fosse ridotto all’osso in un turno di 15 pazienti.
All’inizio pensavo che la mia relativa lentezza nel refertare un esame TC torace-addome (40-45 min) fosse dovuta all’inesperienza e credevo che con l’andare del tempo le cose sarebbero migliorate. Tuttavia più diventavo esperto, più i tempi cominciavano a dilatarsi poiché mi rendevo conto di quante cose si potessero vedere in una TC total-body al di là del semplice polmone-fegato-reni-pancreas e di quanti errori venissero compiuti dai colleghi di altri ospedali. Negli ultimi mesi di lavoro avevo una media di circa 1 ora per TC torace-addome (Mi ricordo ancora la scaletta: polmoni in generale, vie aeree, noduli e micronoduli, mediastino, cuore, vasi polmonari, stretto toracico superiore, reni e vie escretrici, surreni, pancreas, milza, fegato, aorta e grossi vasi addominali, grosso intestino, mesentere e linfonodi mesenteriali, docce parietocoliche, vescica, pelvi, linfonodi retroperitoneali, ossa e masse muscolari, finestra per aria libera in addome). Durante il turno TC riuscivo a refertare le urgenze e poco più per poi trascinarmi gli esami per altre 10 ore successive durante la settimana. A fronte di una settimana di 36 ore di servizio rimanevo in ospedale all’incirca 50 ore settimanali a 2500 euro al mese lorde pagate a partita iva (i conti me li sono fatti da solo, il mio tempo valeva meno di quello della signora delle pulizie che non riuscivo a pagarmi).
Tralasciando il discorso riguardante la responsabilità medico-legale ho accettato il compromesso perché il mio lavoro mi piaceva. Stavo facendo del bene alle persone. Poi ho cominciato a capire perché i colleghi facessero degli errori nei loro referti. Ho conosciuto la madre single che voleva tornare a casa dal figlio. Il padre di famiglia con la recita delle bambine all’asilo alle sei di sera. Il marito che doveva andare dall’avvocato perché stava divorziando dalla moglie perché non era mai a casa. A quel punto ho capito che tutti noi abbiamo due modi di raffrontarci al nostro lavoro.
Esiste la persona per la quale il suo lavoro viene prima di ogni altra cosa, la persona che vuole lavorare per bene e che mossa da senso del dovere e da enorme professionalità dedica tutte le sue energie ed il suo tempo a fare bene il suo lavoro a scapito della sua vita personale, dei suoi hobby, delle sue passioni e della sua vita di relazione. Ma esiste anche la persona per la quale il lavoro viene giustamente in secondo piano rispetto al tempo da passare con i figli, alla cena al ristorante con la moglie, al tempo per se stesso perché in fin dei conti si lavora per vivere e non si vive per lavorare.
Ho visto questa seconda persona comparire periodicamente in alcuni miei colleghi che magari dopo una settimana di lavoro intenso cominciavano a far emergere alcuni comportamenti deviati (“il polmone in una TC addome non lo guardo”; “nella richiesta non è scritto per stadiazione. Se vogliono che io guardi le ossa me lo devono scrivere”; “non ho tempo di seguire il mdc, lo fa il tecnico e mi chiama se c’è bisogno”; “fammi solo la portale che non voglio guardarmi mille immagini”) ed ho capito il perché di alcuni errori.
Se da un lato l’errore interpretativo di un’immagine è comprensibile dal lato umano e giuridico ed anche più accettabile dalla persona che lo ha commesso (“cavolo ci ho messo tutto il mio impegno, pensavo fosse proprio un angioma atipico ma era una lesione”), l’errore di mancata diagnosi dal punto di vista personale lo ritengo una sconfitta (“come ho fatto a perdermi questa cosa? Bastava guardarla”). L’unica soluzione che avevo trovato era lavorare con i tempi giusti.
Purtroppo in una struttura pubblica con dei tempi d’attesa da rispettare altamente opinabili e dettati dalla pancia del volgo (altrimenti la poltrona del politico di turno salta), con il personale ridotto all’osso per risparmiare, con l’indicazione all’esame decisa da un medico di base che mediamente in vita sua ha fatto tutto tranne che il suo lavoro, con la gestione del percorso di un paziente dettata dai ritmi del parcheggiatore/portinaio/segretaria/TSRM/infermiera e mai del medico che deve refertare, ridurre i ritmi di lavoro non è fattibile. Ci stiamo muovendo in una direzione a mio parere impossibile da deviare fatta come dici tu da un aumento di richiesta motivato da un aumento di offerta a sua volta motivato da un aumento di richiesta. Gli unici anelli deboli di questa catena in cui quasi tutti ci guadagnano, gli unici soggetti che ne subiscono le conseguenze, sono i pazienti che veramente hanno una patologia per la quale l’esame è necessario e che necessitano di un analisi del loro esame come Dio comanda ed il professionista che si assume la responsabilità di quello che scrive.
Se i primi sono ben rappresentati, i secondi se la prendono in quel posto da soli perché accettano, come ho accettato anch’io a suo tempo, di lavorare in queste condizioni a scapito o della loro vita personale o della propria professionalità. L’evento che per me è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato dover eseguire a fine turno di un venerdì mattina una TC post-operatoria di una paziente complessa con emorragia arteriosa intra-operatoria per riparare la quale la sterilità era andata a farsi benedire. Ho ancora negli occhi lo sguardo della paziente con la febbre a 39 che mi guardava ridotta ad uno straccio distesa sul lettino della gantry. Le immagini sul monitor erano un casino. Pus dovunque. Un letto operatorio pieno di pus che non si sa come non aveva intaccato il tamponamento di un’emorragia arteriosa.
Mi ricordo che sono entrato nella sala di refertazione saltando il pranzo e sono rimasto da solo con il collega dei toraci a refertare.
Ho dato del mio meglio per cercare di fare il possibile sapendo che tutto il mio impegno probabilmente non sarebbe servito comunque a nulla e che, anche in caso di referto perfetto, se le cose fossero andate male avrei passato delle conseguenze solo per aver fatto il mio lavoro. Ricordo che dopo un’ora passata a descrivere il percorso fatto dalla raccolta negli spazi anatomici del retroperitoneo ed aver informato l’interventista di turno del percorso che doveva fare a partire dalla ferita chirurgica per raggiungere la raccolta tramite drenaggio, ho guardato il collega in sala di refertazione e gli ho detto: “ti prego controlla quello che sto facendo perché non ce la faccio più”. Sono andato avanti un’altra ora a refertare dopodiché ho firmato l’esame, sono tornato a casa e sono crollato. Lì ho deciso di cambiare vita. Lì ho capito che il mio lavoro per poter essere fatto bene necessita di un tempo che la sanità pubblica non concede. Lì ho capito come se le cose vanno bene è la struttura che funziona, se le cose vanno male sono cazzi tuoi. La paziente non si sa come fortunatamente è sopravvissuta all’emergenza.
Dopo un anno di lavoro ospedaliero a seguito di quell’evento in due mesi mi sono licenziato ed ho cominciato a lavorare esclusivamente in privato in ambito ecografico. E’ stata una scelta dettata dal senso di responsabilità nei confronti del paziente e dal rispetto che devo a me stesso ed ai miei cari. In 20 minuti riesco a parlare con il paziente, eseguire un esame in maniera corretta, scrivere un referto e sentirmi a posto con la mia coscienza. Sono passati anni dalla mia scelta e non ne sono affatto pentito. Per quanto lavori ad un livello di base non mi sento meno affermato di un radiologo interventista o di un collega che lavora in ospedale e torno a casa sereno nei tempi che decido io. Certo non ho nessuna garanzia sul mio lavoro, se mi ammalo non guadagno, se i soci dello studio mi vogliono mandare via perché gli sto antipatico nessuno glielo impedisce ed ogni semestre è un’incertezza ma mi sento libero. Libero di fare il mio lavoro nel modo per me più professionale possibile. Vorrei, se possibile in forma privata, sapere il tuo punto di vista riguardo al mio pensiero e sapere se in passato hai avuto delle esperienze simili alle mie.
Ti auguro una buona giornata e buon lavoro.
Un giovane collega “bruciato”.
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Ecco, io ho fornito a Francesco le mie considerazioni, e l’ho fatto in forma privata come lui ha chiesto. Però mi piacerebbe molto sentire anche le vostre.