Ricevo da Alessandro, specializzando entusiasta di Radiologia, questo link: lo voglio condividere con il resto degli internauti.
Siamo a Chicago, congresso RSNA 2012: si parla della percezione che hanno di noi radiologi i pazienti in generale. I risultati sono sconfortanti, in un certo senso, perché quando vieni a sapere che soltanto il 53% degli intervistati ritiene il radiologo un medico e non un altro tipo di figura professionale più o meno tecnica, capite bene che nasce il dubbio di aver studiato dieci anni per l’anima del picchio. Certo, è uno studio americano; e, certo, l’ammericano medio non brilla per livello culturale: ma credo che i numeri, in buona sostanza, possano essere riproducibili anche nella nostra vecchia e cara Europa.
Ma in fondo noi radiologi conosciamo già questa situazione. Della quale siamo responsabili in virtù della dote peculiare di categoria, ossia la reticenza: a scrivere, a comunicare, a concludere in modo logico e a interfacciarci con colleghi e pazienti. Ma a me, lo sapete per esperienza, più che le recriminazioni stanno a cuore le soluzioni ai problemi. Secondo gli Autori il modo migliore per combattere la mancanza di informazioni è quello di implementare gli aspetti comunicativi del nostro mestiere per disegnare, finalmente, un percorso diagnostico-terapeutico personalizzato sul singolo paziente: e su questo direi che possiamo essere tutti d’accordo. Sul come portare a casa il risultato invece stiamo ancora qui a discutere: qualche presidenza SIRM fa, come è stato più volte ricordato in questo blog, il problema della comunicazione era stato affrontato in modo deciso. Poi la spinta propulsiva è andata perduta: si vede che le questioni politiche erano più impellenti di quelle legate alla necessità di una corretta comunicazione.
Alla fine, però, c’è un messaggio confortante che gli Autori ci propongono come viatico: è più appagante lavorare quando si possono guardare i pazienti negli occhi, quando il radiologo sente che non sta solo analizzando fredde immagini su un monitor ma si sta prendendo cura di una persona; e proprio di quella persona lì, non di un’altra. Per chi di noi ha competenze molto elevate in un dato settore lavorativo l’esperienza è nota: i pazienti ti cercano, vogliono solo te e sono disposti a sciropparsi migliaia di chilometri purché sia tu a eseguire il loro esame radiologico. Alla fine, il risultato è un rapporto anche personale tra radiologo e paziente: e non potrebbe essere altrimenti.
Ma ancora più confortante è la frase finale: tutto assume più significato, la giornata lavorativa in ospedale come l’intera carriera, se ci si rende conto che il nostro lavoro ha prodotto un qualche tipo di differenza nella cura e nella qualità di vita dei pazienti. Questo vorrei ricordare a quanti, politici e amministratori, tendono a ridurre tutto lo sforzo gestionale sanitario al risparmio economico: ciò che facciamo ha senso se riusciamo a produrre una differenza; uno scatto di qualità anche minimo, ma uno scatto di qualità. Non ci si può insomma dimenticare che in sanità gli attori, medici e pazienti, sono uomini: e che gli uomini, prima di ogni altra cosa, hanno bisogno di sogni e di speranze.