La vita è breve, e noi siamo appesi a un filo. Questa è la lezione che ci insegna, a noi medici dico, il mestiere che facciamo. Oggi sei vivo e sano, ti svegli la mattina dopo e sei malato, con i giorni contati. Oggi ti trovi dalla parte giusta del vetro, guardi un paziente fare la risonanza magnetica e poi scrivi un minuzioso referto, e domani steso su quel lettino freddo potresti esserci proprio tu. Con il tuo carico di pendenze rimaste in sospeso, di figli da crescere, di debiti insoluti e cose non dette.
Non è che ci siano molte soluzioni al problema, beninteso. Da qualche parte, in qualche momento, il viaggio deve pur finire. Per tutti: chi vive sotto un ponte e chi manovra i destini del mondo al riparo di bunker antiatomici e delle banche di famiglia. Magari per accorgerci, come dicono i saggi ma anche gli stolti imbevuti di ideologia new age, che l’importante non è arrivare, da qualunque parte uno abbia deciso di dirigersi, ma il modo in cui hai viaggiato. E allora io non so se vi sto dando il consiglio giusto, ma almeno provate a leggere il post fino alla fine.
Quello che voglio proporvi è un esercizio pratico che comincia la mattina appena alzati e finisce la sera, un secondo prima di prendere sonno; valido anche per i non radiologi. Quando vi svegliate non maledite la sveglia: piuttosto spegnetela e poi stiracchiatevi, provare a sentire per qualche secondo quanto è bello e confortante ritrovare ancora vivo il vostro corpo, che gioia il contatto di tutto il vostro corpo con il materasso ancora tiepido. Quando accendete la luce in bagno, prima di farvi la barba o lavarvi i denti, pensate qualche volta al miracolo di poterla avere, quella luce accesa davanti al viso. Non è un piccolo miracolo quotidiano? Un uomo qualunque di un secolo fa avrebbe dato un braccio per poterne beneficiare.
Quando uscite in strada, prima di ficcarvi in auto e sempre che non abitiate nel centro di Milano o di Roma, provate a respirare: l’aria che entra nei polmoni è un inebriante naturale anche se contiene polveri sottili (e tanto con quelle non possiamo farci nulla). Per quanto costretto e sacrificato, il verde intorno a voi esplode in ogni direzione. Godetevi i colori, è primavera, dovrete aspettare un anno intero per rivederli e non è detto che vi ricapiti il privilegio. Se è l’alba, fermate la macchina lungo la tangenziale e guardatevela tutta, senza fretta: non importa che gli altri vi stiano sfrecciando accanto a duecento all’ora pensando a quanto siete imbecilli, voi vi state godendo uno spettacolo indimenticabile e loro no. Se avete una macchina fotografica portatevela sempre dietro e riempitevi gli occhi di meraviglia, come fa il mio amico Johhny (che la meraviglia per giunta poi la condivide con il resto del mondo).
Al lavoro, non importa che cavolo di lavoro facciate, perdete un po’ di tempo con le persone che condividono il vostro spazio. Salutateli tutti, persino quelli che vi stanno sulle palle (certo, c’è sempre qualcuno con cui proprio non ce la fate, non importa e capita a tutti, anche a me). Se potete, almeno quelli a cui volete bene, toccateli e abbracciateli e godetevi le facce stralunate di chi non è più abituato a nessun genere di contatto fisico: c’è gente che di questi tempi si appende per il collo non solo perché gli affari vanno a catafascio, ma anche perché nessuno più li tocca e gli fa sentire un minimo di empatia. Se siete medici state qualche secondo in più con i pazienti e fateli parlare: le loro storie vi arricchiranno, ne avrete in cambio sorrisi indimenticabili e strette di mano e aneddoti da raccontare nelle lunghe sere d’inverno, quando l’unica luce che illumina la stanza sarà il fuoco del camino.
Avete qualcuno, qualche persona a cui dovreste dire qualcosa di importante? Qualcosa che non avete mai detto e che vi sta qui, sul gargarozzo, che non sale e non scende? Il momento giusto per dire tutto è ora. Non domani, non fra un mese nè alla prima buona occasione. Ora. Magari approfittate di una bella notte serena, una di quelle in cui potreste puntare il dito e dire: guarda, lì c’è Marte e lì c’è Giove e lì c’è Venere, non ti sembra una cosa incredibile che noi si possa vedere così distintamente pianeti lontani milioni di chilometri?
Insomma, quello che voglio dirvi è che è tutto dannatamente fugace: e io come radiologo lo so prima e meglio di chiunque altro. Tutto è fugace ma tutto è anche spesso meraviglioso, incredibile, indescrivibile; persino la sofferenza stessa. Ormai siamo disabituati alla sofferenza, viviamo in compartimenti stagni dove tutto è lecito pur di non soffrire: antidolorifici, antidepressivi, droghe naturali e droghe sintetiche. E invece la sofferenza andrebbe affrontata come tutto il resto, come la noia per esempio: presa nelle mani, conosciuta a fondo e poi lasciata andare via. E voglio anche dirvi che non intendo perdere altro tempo a pensare a cosa è stato ieri e a cosa potrebbe essere domani: non mi interessa, quello che esiste, se esiste, esiste oggi e basta. E quindi, se tutto è fugace e c’è molto di meraviglioso, voglio stare affacciato più spesso alla finestra. Riabituarmi a usare gli occhi, le orecchie, le mani. Ad annusare. A gustare.
Per i guai c’è sempre tempo, datemi retta.