Qualche sera fa sono uscito a cena con un vecchio amico, che non vedevo da qualche mese. In quella circostanza mi ha parlato dei suoi recenti problemi di salute, che non sono gravi ma tuttavia abbastanza invalidanti, e io gli ho chiesto a quali specialisti si fosse rivolto.
Dovete sapere che il mio amico, per congiunture lavorative, fa la spola da qualche anno tra Italia e Austria. All’inizio si è rivolto a professionisti della nostra zona, compresi quelli di alcune regioni limitrofe. e non è venuto a capo del problema. Quindi si è rivolto a un specialista austriaco: il quale, al pari di quelli italiani, non è stato in grado di risolvere la sua patologia.
A questo punto però il mio amico ha fatto una riflessione molto particolare, di cui mi piacerebbe mettervi a parte. Ha detto: Il punto importante non è che il medico austriaco mi abbia curato in modo definitivo, ma che con lui, per la prima volta dopo anni, mi sono trovato contatto con un professionista che è sembrato interessato non soltanto alla mia patologia e alla parcella di fine visita, ma me come persona.
Capite bene, detto questo, che qui si aprono squarci di vita vissuta che non ci fanno molto onore, né come categoria lavorativa medica né come persone. Perché a questo punto comincio ad avere troppi amici e conoscenti che mi dicono la stessa cosa: Sono andato da quel tale medico e lui non mi ha quasi ascoltato, e a momenti nemmeno guardato in faccia.
Il che mi riporta automaticamente alcuni miei colleghi, di differenti specialità, che nel corso di questi anni mi hanno dato la stessa triste impressione: alcuni dei quali addirittura, in 12 anni di spero onorata carriera nell’ospedale in cui attualmente opero, non ho avuto il piacere di conoscere personalmente. Quando uno specialista, in oltre 10 anni, non si prende la briga di farsi due passi fino in radiologia per discutere con il radiologo un caso particolare che gli sta a cuore, ha probabilmente un grosso problema: non ha nessun caso, nessun paziente che gli stia davvero a cuore.
Insomma, quello che voglio dire è che noi medici non possiamo continuare a lamentarci di insolvenze contrattuali, di ingerenze politiche e di tutto lo sporco e il malato che gira intorno alla nostra professione come elemento più o meno accessorio, e basta. Se prima non dimostriamo di essere in grado di prenderci cura dei nostri pazienti con l’attenzione che ognuno di loro merita, in relazione alle caratteristiche anche caratteriali di ogni singola persona, qualsiasi altra questione si arena qui.
In molti mi dicono, puntandomi addosso il dito: Il tuo lavoro non è una missione, è solo un lavoro. Che poi è anche vero: io ho studiato molti anni per diventare prima un medico e quindi un radiologo, insomma ho investito sul mio futuro e adesso sto raccogliendo il frutto delle mie fatiche. E il mio è davvero un lavoro come tutti gli altri: turni settimanali e giornalieri, liste lavorative in ogni turno, insomma tecnicamente non c’è molta differenza tra il mestiere di medico e un impiego di qualsiasi altra natura.
Ma è vero anche che il nostro lavoro ha a che fare con l’essenza più intima delle persone, in ciò che li tocca più profondamente: la loro salute e quella dei loro cari. In altre parole, la possibilità di vivere serenamente il presente e di poter programmare un minimo di futuro, per se stessi e chi li accompagna nel viaggio della vita. Il lavoro di medico, insomma, non è una missione. Ma necessita però di una vocazione, per quanto piccola: altrimenti, con rispetto parlando, non c’è nessuna differenza tra un medico e l’idraulico che viene a sistemarvi le tubature di casa.
È questa la domanda che dovremmo porci ogni giorno, noi medici, ogni mattina prima di andare al lavoro e ogni pomeriggio mentre ritorniamo a casa con il mezzo di locomozione che la vita ci ha destinato in quel particolare momento: se in noi ha mai albergato, e se ancora alberga, un minimo di vocazione per il nostro mestiere. Tutto il resto viene dopo, è di secondaria importanza; e di tutto il resto ai pazienti, detto tra noi, non gliene può fottere meno.