Non ho imparato da solo, ci mancherebbe, in questo mi hanno aiutato i miei due bimbi (e non solo in questo, verrebbe da chiosare).
Quando Chiara arriva è sempre spaventata a morte. E’ stanca, non dorme da ore, spesso non mangia da altrettanto e oltre al suo, di dolore, c’è quello di quando qualcuno vestito tale e quale a me le ha piantato un ago nel braccino grassottello. Per cui, quando mi vede, Chiara ha un riflesso condizionato: si mette a piangere.
L’infermiere a volte l’ha già messa seduta sul lettino dell’ecografia, ma altre è ancora in braccio a mamma e papà. Come gli animali, Chiara sa che puoi distenderti a pancia in alto solo con qualcuno di cui ti fidi: e di quello sconosciuto vestito di verde, per cose accadute solo pochi attimi prima, proprio non ci si può fidare.
Io, per non saper né leggere né scrivere, entro e sorrido subito a lei. Un sorriso ampio, luminoso, ma non circolare: Chiara deve sapere che il mio sorriso è rivolto solo a lei e non anche a mamma e/o papà, come il fascio di luce del palco di un teatro. Poi non infilo subito i guanti, gesto che pianterebbe una specie di steccato virtuale tra me e lei: quando le toccherò il pancino voglio che senta il calore della mia mano. Prima di ogni altra cosa.
Ciao, le dico. Lei non risponde.
Io mi chiamo Gaddo, e tu?
Lei non risponde, anche se mamma la spinge a farlo o dice, al posto suo: Lei è Chiara.
Ti faccio subito una promessa, insisto. Qui dentro nessuno ti farà bua. Se qualcuno ti farà bua io e te lo manderemo via. D’accordo?
Lei ancora non risponde, però una parte di lei inizia a chiedersi dove voglia arrivare questo sconosciuto vestito di verde.
Guarda cosa facciamo adesso. Prendo in mano la sonda ecografica e dico: La vedi questa cosa? La poggiamo sul tuo pancino.
Chiara si ritrae istintivamente. No, aspetta, senti prima come è morbida. Ci passo l’indice su e le dico: Vuoi sentire come è morbida? Chiara mi guarda perplessa: se ho passato su il mio dito su quella sonda tanto male non può fare. Poi provo a prenderle la manina: se dovessi riuscirci sarebbe fatta, Chiara avrebbe sentito il tocco della mia pelle e quindi, per dinamiche che ancora mi sfuggono, sarebbe certa che non voglio farle del male.
Guarda, visto come è morbida? A volte, ma solo a volte, Chiara accenna un decimo di sorriso. Adesso ci mettiamo su un po’ di gel come quello che il papà usa per i capelli, vedi, poi lo appoggiamo sulla pancina e ti faccio il solletico. Se senti bua, ti prometto che appena dici basta mi fermo.
Nove volte su dieci, a questo punto Chiara è pronta per essere distesa. E’ ancora tesa, una parte remota di lei è pronta al peggio; però si distende. Ma io non comincio, e lei si chiede il perché.
La precedo. Però prima di cominciare io voglio sapere una cosa. Qual’è il tuo cartone preferito? Quello che ti piace più di tutti tutti.
All’inizio Chiara non capisce. La mamma le dice: Dai, Chiara, qual’è il cartone che ti piace? E Chiara, miracolo, parla. Le sue prime parole, spesso, sono il nome del cartone preferito. Mi piace Peppa Pig.
Davvero? Sai che io ho una bimba che ha la tua stessa età, si chiama Silvia, e anche a lei piace tanto Peppa Pig?
Quasi sempre, a quel punto, io e Chiara cominciamo a parlare del cartone animato, di quali sono i suoi personaggi preferiti, di una storia che le è piaciuta più delle altre. A me Peppa Pig non piace, lo confesso, è il peggior cartone animato di sempre, ma ho una cultura sull’argomento praticamente sconfinata. Potrei parlare per ore di Peppa Pig; potrei aver inventato io il personaggio, per quello che ne sa Chiara.
A fine esame, immancabilmente, chiedo a Chiara un sorriso e lei me lo regala: il più bel sorriso della giornata, che mi ripaga di tutto, ma proprio di tutto il brutto che ho visto fino a quel momento. Mi sorridono anche la mamma e/o il papà: Grazie, mi dicono. Sa che è la prima volta che Chiara sta così buona a un esame medico?
Anche io sorrido. Non dico mai che invece dovrebbero ringraziare i miei due figli: mi hanno insegnato loro che quando hai a che fare con un bambino non puoi restare in piedi ma devi inginocchiarti davanti a lui, guardarlo negli occhi, tornare per un attimo a quegli anni e immaginare cosa sta provando in quel momento terribile di dolore e confusione.
Il resto, diceva un vecchio giornalista sportivo, è accademia.