Io e Finardi

di | 2 Maggio 2013

finardi

Perdonatemi, ma oggi vi palerò un po’ dei fatti miei.

Correva l’estate del 1983, giusto trenta anni fa. Eravamo a fine estate, quel periodo di ineffabile malinconia che precede la fine delle vacanze e l’inizio della nuova stagione scolastica. Io e gli altri amici della comitiva uscivamo insieme tutte le sere, in un intreccio di passioni adolescenziali che si accendevano e spegnevano nel giro di pochi giorni come fuochi d’artificio: lo stesso colore, lo stesso rumore, ma di durata brevissima.

Adesso immaginatevi il prato davanti al palco di un concerto, a fine agosto. Io che sono seduto a terra, sull’erba, e abbraccio da dietro una ragazza carina, con gli occhi verdi e il viso costellato di lentiggini, mentre aspettiamo che l’artista venga fuori e cominci la musica. Quella ragazza mi affascinava: non ne ero innamorato ma mi piaceva molto la sua allegria. Sebbene già all’epoca quella stessa allegria mi sembrasse venata di una disperazione incolmabile, un’inquietudine strisciante, che all’epoca non avrei mai potuto decifrare con le mie poche forze di quattordicenne. E io piacevo a lei, immagino, visto che mi cercava in continuazione e poi trovò anche il modo di farmelo sapere per vie traverse, visto che non mi decidevo a farmi avanti: ma il problema è che lei l’autunno precedente era stata un paio di mesi con il mio migliore amico, lui ancora ci stava male e che volete, tra maschietti esistono codici non scritti che non possono essere disattesi. Lei mi piaceva, ma non le avrei mai dato neanche un bacio.

Comunque, ero lì, sul prato, la abbracciavo da dietro: e a un certo punto si accendono le luci, parte un assolo di chitarra elettrica e viene fuori lui, Eugenio Finardi. All’epoca aveva una trentina d’anni al massimo, era in forma smagliante, bello come il sole. Cantava e saltellava sul palco con un’energia inesauribile, vestito con un jeans e una canottiera rosa shocking. Non gli si vedevano bene gli occhi perché li aveva coperti con una visiera, rosa anch’essa, ma sembrava felice di essere lì, in quella serata calda ma non troppo, affollata ma non troppo, in una piazza di gente che conosceva le sue canzoni ma non troppo, a fare il suo sporco lavoro di intrattenitore. Mi rimase impresso il modo in cui cantò “Patrizia”, la canzone dedicata a sua moglie: ascoltandolo, mentre me ne stavo abbracciato alla ragazza carina, pregavo Iddio di avere un giorno la stessa fortuna, di incontrare una donna che mi evocasse le stesse sensazioni e mi facesse sgorgare dal cuore le stesse parole che Finardi cantava in quel momento.

Poi, in un attimo, mi accorgo che sono passati trenta anni. Guardo la televisione e c’è il concertone del primo maggio, e sul palco con Elio e Le Storie Tese c’è proprio lui, Eugenio Finardi: che adesso è un signore sovrappeso alle soglie della terza età, con gli occhi che gli sorridono molto meno di quanto mi ricordassi e che suggeriscono un percorso di vita che non deve essere stato sempre facile. Anche io ho trenta anni di più: e ho scoperto che più vado avanti e meno comprendo il mondo che mi circonda, le scelte che vengono fatte da chi comanda, a tutti i livelli, e da chi deve adeguarsi alle regole perché questo vuol dire il vivere civile in comunità. A 14 anni tutto mi era più chiaro, ma forse perché non possedevo abbastanza informazioni sul mondo: che è poi il motivo per cui le nostre vite dovrebbero essere invertite, e sarebbe meglio nascere vecchi e morire giovani per potersi godere al meglio gli anni della salute e dell’entusiasmo. O forse no, forse è meglio che le cose restino come sono, perché se arrivassimo ad avere vent’anni dopo una vita così complicata quei vent’anni non riusciremmo a goderceli come ce li siamo goduti all’epoca, nel vortice dell’entuasiasmo e dell’inconsapevolezza di quei giorni. La inesorabile freccia del tempo, in ultima analisi, forse non è un atto di amore della natura nei nostri confronti.

Questo ho pensato ieri sera, ascoltando Finardi che cantava in tivù. E ho realizzato all’improvviso, con un tuffo al cuore, che la mia preghiera di trenta anni prima è stata esaudita: ma questa è un’altra storia, scusatemi, e la racconterò un’altra volta.

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