Io non esprimo un’idea, piuttosto ne faccio una narrazione

di | 4 Agosto 2020

Ultimamente non solo le notizie tendono a una sospetta serialitá, che nutre le preoccupazioni complottistiche alberganti dentro di noi, ma anche le parole di uso comune.

Negli anni ‘70 Luca Goldoni, (purtroppo) dimenticato giornalista di costumi italici, antesignano di Severgnini ma rispetto a lui elevato alla decima potenza, intitolò uno dei suoi libri “Cioè”: l’avverbio composto che in quegli anni inquinava il lessico dei giovani e che Verdone riprese, cachinnandolo assai, in alcuni dei suoi film più iconici. Questo per dire che il gusto della parola alla moda, in Italia, c’è sempre stato. Sarebbe interessante capire esattamente come e in quale momento storico si inizia a usare una certa parola-chiave e in che modo il tam tam collettivo la tramuta in un’infezione virale che contagia tutti, al punto che la parola stessa perde il suo significato iniziale e diventa un mostro chimerico: il contrario di una meta-parola.

Gli ultimi anni, per esempio, sono stati interamente caratterizzati dalla parola “tema”: il tema della sanità, il tema della scuola, il tema dei migranti. Siamo stati talmente ossessionati dai temi, dicevo qualche tempo fa, che ci siamo dimenticati dei problemi: con le ovvie conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Dove voglio arrivare? A dirvi che c’è una nuova parola seriale in arrivo, alla quale sarà meglio che vi abituiate fin da subito: “narrazione”. 

Sembra che all’improvviso non esistano più fatti circostanziati o pareri più o meno legittimi sui fatti, ma solo una narrazione personale degli stessi. Sempre per restare in tema (sic), quello dei migranti che annegano nel Mediterraneo ha smesso di rappresentare in sé un fatto drammatico: è qualcosa di più, adesso si tratta di una narrazione. Allo stesso modo, il politico che esprime pareri discordanti sull’argomento migranti non fa più un’analisi socio-politica o antropologica della situazione: no, sarebbe troppo riduttivo. Lui, in quel preciso momento, sta a sua volta compiendo una ardita narrazione.

Tuttavia, questo scivolamento semantico della parola “narrazione” è ideologicamente diverso dal “cioè“ degli anni ‘70, dal “diciamo” di dalemiana memoria degli anni ‘90, dal fatidico “come dire” di inizio secolo corrente e dal profluvio di “temi” che ci ha afflitto da Letta e Renzi in avanti nei talk show politici di prima e seconda serata televisiva. Tutte quelle parole seriali avevano lo scopo preciso di far guadagnare tempo a colui che le stava pronunciava e nel contempo, grazie proprio a quelle formule quasi magiche, riusciva entro certi limiti a darsi un tono di credibilità ulteriore.

La “narrazione”, nella sua essenza fondamentale, è profondamente differente dalle altre parole seriali e riconduce al postulato filosofico pentastellato secondo il quale ognuno di noi vale uno: fatta questa premessa, diventa evidente che i fatti oggettivabili smettono di esistere e sono sostituiti non dalle opinioni, che comunque implicherebbero una presa di posizione e quindi l’assunzione di un qualche tipo di responsabilità, ma dalle “narrazioni” personali. 

“Narrazione” è quindi un termine autoassolutorio, scivoloso, democratico nel senso più deteriore del termine perché adoperabile da chiunque e con lo stesso valore intrinseco. Ed è la premessa alla conclusione inevitabile che, siccome tutto è “narrabile” rispetto a un ipotetico punto di vista personale, nulla è più oggettivabile, pur nei limiti strutturalmente insiti nel termine “oggettivo”; e che le narrazioni, tutte, a prescindere dal metodo, si equivalgano per qualità.

Insomma, per essere chiari e parlare come mangiamo: se tu hai un’opinione su un fatto ti si può dimostrare scientificamente che è sbagliata, e suggerire l’ipotesi più o meno velata che tu sia un ignorante, se va bene, o un coglione se va male. Viceversa, se su un dato fatto tu esponi la tua “narrazione” diventi intoccabile: la narrazione è intrinsecamente antiscientifica, non misurabile in alcun modo, al massimo può interessare o annoiare ma non possiede alcun valore etico. E siccome è frutto, più che del pensiero critico, della sensibilità individuale, essa contiene anche un germe di romanticismo assai démodé che tuttavia la rende affascinante per i poveri di spirito.

Quindi sarà meglio prepararsi: la politica degli anni ‘20 sarà non più “tematica”, come negli ultimi lustri, ma eminentemente “narrativa”. Sarebbe a dire che potranno continuare tranquillamente a prenderci per il culo, ma con una certa pretesa di stile che sicuramente ci lascerà tutti molto più soddisfatti. E la certezza, mal coltivata, che anche la nostra narrazione alla fine abbia lo stesso livello di interesse di tutte le altre.

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