Da che mi ricordo, io nella vita ho sempre avuto due grandi sogni.
Uno: avrei voluto diventare una persona perbene, perchè perbene non ci si nasce ma ci si può diventare. Specie se il modello paterno, da questo punto di vista, è un pò ipertrofico (il che non è però sempre un vantaggio, perchè ricordo distintamente un’intervista televisiva in cui Selen, nota attrice porno, dichiarava candida che uno dei motivi della sua scelta di vita era stato l’estremo perbenismo del suo ménage familiare).
Due: entrando più nello specifico, avrei voluto saper passare attraverso situazioni scabrose senza sporcarmi. La metafora, tanto cara a un mio amico ferrarese, dell’uovo di alabastro: così liscio e privo di scabrosità da poter attraversare un oceano di escrementi senza trattenerne sulla superficie nemmeno una goccia. E, di conseguenza, poter offire al prossimo sempre il meglio di cui si è capaci in quel momento.
Il che, presumibilmente, è presunzione pura. Illudersi che fermarsi a un incrocio per far passare un automobilista in difficoltà, prima di te che hai precedenza, metta in moto un meccanismo virtuoso per il quale la prossima volta quello stesso automobilista farà lo stesso con un altro, è da presuntuosi. Illudersi che, trattando un paziente con gentilezza e compassione, questi sarà invogliato a ricambiare te o altri con la stessa moneta, è da presuntuosi. Illudersi che, per aver dato il massimo della fiducia e della disponibilità a un amico, lui farà lo stesso con te, è da stupidi, oltre che da presuntuosi.
Poi ti ritrovi la domenica mattina, in centro, con il bimbo a cui scappa disperatamente la pipì. Entri di corsa nel primo bar, trovi un signore davanti alla porta del bagno e gli chiedi gentilmente se può darti la precedenza perchè il bimbo, vede, è proprio al limite della resistenza e rischia di farla lì davanti a tutti; e lui ti risponde, senza fare una piega: Scappa molto anche a me la pipì. E poi entra in bagno senza neanche l’ombra di un rimorso per il suo miserabile comportamento, lasciandoti incredulo con il bimbo in braccio.
E lì mi sovvengono due ricordi. La prima è l’espressione amara di tutte le persone che hanno sostenuto strenuamente, in questi miei primi quarant’anni, che il prossimo va trattato male a prescindere, giusto per mettersi subito dalla parte giusta. O che come minimo fai bene a non fidarti, perchè a non fidarti ci becchi quasi sempre. La seconda è il finale di una indimenticabile canzone di Gaber, Io se fossi Dio, in cui chiosa altrettanto amaramente: E alla fine va a finire che io, se fossi Dio, mi ritirerei in campagna come ho fatto io.
Domani ho dodici ore di pronto soccorso: speriamo bene.
Che Gaber sia con me.