Io sono bello fuori e dentro sono ancora meglio

di | 1 Aprile 2016

Come forse qualcuno di voi saprà, Enrico Rossi, il presidente della Regione Toscana, da deciso di cavalcare il cavallo della rivoluzione in campo sanitario: e va dicendo, potete leggere l’intervista qui, che l’attività intramoenia dei medici ospedalieri deve essere abolita perché immorale, perché i medici ospedalieri sono dipendenti pubblici e non devono avere bottega in proprio. La qual cosa, dice Rossi, anche se non si comprende come, produrrebbe l’azzeramento immediato delle liste di attesa (l’uomo ci si gioca la faccia: verrebbe proprio voglia di lasciarlo fare).

Un paio di considerazioni personali: fatte da uno che ha sempre considerato la legge Bindi, come direbbe Fantozzi, una cagata pazzesca; e che quindi può dirsi al di sopra di ogni sospetto. La prima è quasi scontata: la stragrande maggioranza dei medici ospedalieri si è vista piombare tra capo e collo la riforma Bindi senza condividerla, quindi parlare di pressioni da parte delle corporazioni mediche è quantomeno inesatto. Lo scopo della riforma era, nella migliore delle ipotesi, quello di tenere i medici negli ospedali ed evitare le migrazioni nel privato a fine orario lavorativo. Come faccio a evitare le fughe pomeridiane dei medici nei reparti, deve aver pensato la Bindi, cogitabonda, in una notte insonne: certo, facendogli fare attività privata dentro le mura ospedaliere e con le risorse degli ospedali stessi.

Il guaio, come al solito, è stata la scarsa lungimiranza: non ci voleva un genio del management sanitario per capire che se un paziente deve fare un’ecografia con liste di attesa di sei mesi, mentre un medico dello stesso reparto in intramoenia può espletare l’esame il giorno dopo la richiesta, sarebbero scoppiati casini a non finire. E’ mancato un passaggio fondamentale, quello legato come al solito alla comunicazione: cioè che il medico eroga la sua prestazione in libera professione intramoenia solo dopo che ha terminato le ore istituzionali, nel tempo libero in cui, in epoche più felici e spensierate, andava a lavorare nel privato. Dunque il medico ospedaliero non ruba nulla a nessuno e tutte le polemiche che ci sono state, negli ultimi anni, possono tranquillamente essere definite strumentali: anche quelle giunte dalle associazioni che tutelano, si fa per dire, l’interesse dei pazienti. Semmai sono i medici ad averci rimesso: ci sarà un motivo se i medici trent’anni fa erano ricchi, e adesso (fatte salve le solite eccezioni additate come immorali) sono finiti nel ceto medio impoverito.

Vado nel pratico: sapete quanto mi vale un’ora di attività ecografia in libera professione intramoenia? 60 euro, sarebbe a dire 15 euro a prestazione ecografica. 15 euro lorde: perché la metà se la mangia lo stato in tasse, un’altra fetta se la mangia la previdenza (obbligatoria) ENPAM e un ulteriore 5-7% va in pizzo all’ospedale che fornisce le apparecchiature. Morale: io ho studiato 10 anni, e lavorato finora altri 16, e maneggiando per giunta un mestiere parecchio rischioso, per portarmi a casa si e no sei o sette euro netti a ecografia. Provate a chiedere al vostro idraulico di cambiarvi la cartuccia di un rubinetto che perde a quella cifra, e fatevi ridere in faccia dal medesimo (il quale medesimo mi ha peraltro appena chiesto, per il lavoro specificato prima e durato cinque minuti di orologio, e stavolta con regolare fattura, la bellezza di 60 euro: cioè quanto io prendo facendo in un’ora le famose 4 ecografie a prezzo regionale standard). Insomma, tutto questo per dire che, fatto salvo il chirurgo disonesto dell’articolo, e ammesso che la sua colpevolezza sia provata in un tribunale e non ipotizzata da giornalisti in malafede, nessuno di noi medici si è arricchito grazie all’intramoenia. Piuttosto, ci ha guadagnato l’ospedale e ci hanno guadagnato le liste di attesa: quindi, in ultima analisi, anche i pazienti. E nessuno ha compiuto un gesto vergognoso di cui pagar pena all’inferno o al purgatorio: finite le ore istituzionali, in cui si lavora anche più del cristianamente dovuto, uno continua a lavorare altrove. In un paese di doppi e tripli lavori, spesso in nero, nessuno dovrebbe meravigliarsi di un meccanismo tutto sommato trasparente e che giova alle liste di attesa, invece che danneggiarle.

E fin qui tutto bene: poi d’un tratto, perché l’Europa lo vuole, l’autonomia oraria settimanale dei medici si è ridotta alle famose 48 ore. Il che si traduce in 38 ore dovute per l’attività assistenziale e 10 (alla faccia, quante) per eventuale attività libero-professionale intramoenia o in convenzione. Dieci ore settimanali: immaginate, soldi a palate per noialtri. E qui si innesta la seconda riflessione: a partenza dal dr. Maldini, chirurgo provvidamente emigrato negli States, la cui intervista (sempre su Quotidianosanità.it) potete leggere qui. Tra le altre cose, Maldini ne dice una particolarmente sacrosanta: è vergognoso che i medici siano pagati tutti allo stesso modo perché i medici non sono tutti uguali e, soprattutto, svolgono mestieri con profili di responsabilità molto differenti. In realtà questo concetto lo afferma in modo più confuso anche Rossi, ma non spiega il perché: non lo spiega perché per riuscirci bisognerebbe essere informati sui fatti, senza i quali non è possibile trovare soluzioni concrete ai problemi; e sui fatti sono informati solo gli addetti ai lavori che non partono da posizioni preconcette (e sono abbastanza addetti ai lavori, capitemi senza bisogno che aggiunga altro).

Avevo in parte affrontato il discorso qui: nel momento in cui si decide di differenziare gli ospedali in hub (centrali, eroganti prestazioni di elevata complessità) e spoke (periferici, eroganti prestazioni di minore complessità) bisogna poi porsi il problema di chi ci lavora, in quegli ospedali lì, e di come gratificare che alla fine eroga le famose prestazioni complesse. Come dico sempre, infilare protesi aortiche in urgenza non è come diagnosticare la frattura di tibia dello sciatore maldestro o sfortunato: sono prestazioni diverse come impatto sulla prognosi del paziente, spesa e rischi medico-legali. La morale è che chi lavora in un ospedale hub dovrebbe guadagnare di più di chi lavora in un ospedale spoke, e che semmai il difficile dovrebbe essere riuscire a essere assunti in un hub, ammesso che si ritenga di avere voglia e capacità di misurarsi con siffatta impresa. Ovviamente la cosa non è in discussione: i motivi cultural-statistici per cui in Italia questo scenario non è proponibile, per adesso, li ho spiegati qui.

Il punto cruciale è allora questo: per determinare chi è in condizioni di lavorare in un ospedale hub, e guadagnare di più, e poter fare a meno di quel minimo di libera professione intra- o extramoenia che consenta di raggranellare uno stipendio decoroso o quantomeno adeguato agli anni di studio e alle responsabilità che ci si piglia con questo mestiere, bisogna stabilire un sistema condiviso e se possibile oggettivo di valutazione. E allora io vedo una sola strada possibile: commissioni tecniche straniere, non italiane, pagate per esprimere giudizi molto netti. Esempio: io lavoro in un hub come radiologo e ogni due anni una commissione di volta in volta olandese, polacca o messicana piomba in reparto, scartabella i miei referti radiologici e, dopo aver accumulato abbastanza indizi, decide che il dottor Gaddo ha un livello qualitativo non adeguato a quel reparto di quell’ospedale e che deve essere trasferito nel corrispettivo spoke dell’Azienda da cui dipende (ovviamente a metà stipendio). Dopodiché, mi pare ovvio, se la commissione norvegese che subentra due anni dopo dovesse non trovare il mio livello lavorativo adeguato nemmeno all’ospedale spoke, non si intravedono altre soluzioni che il licenziamento. Questo è lo scatto qualitativo che ci è richiesto, capite? Poter essere promossi se si è bravi o declassati se non lo si è più, e guadagnare in proporzione. E addirittura avere il coraggio di rinunciare a quel mostro ideologico del posto fisso che ha devastato le casse e il morale di questo paese, accettando la possibilità di poter perdere il proprio lavoro se non si è ritenuti sufficientemente competenti per svolgerlo e le sfide per mantenere un livello culturale adeguato alla bisogna.

Ma noi in fondo viviamo in un paese cattolico e assistenziale, dove puoi lavorare male tutta la vita e, almeno finora, ottenere comunque una pensione (o comportarti vergognosamente, pentirti all’ultimo secondo e comunque guadagnarti il Paradiso). Restiamo insomma fermi al tempo delle chiacchiere, e allora anche il governatore Rossi prima di parlare farebbe bene a studiarsi un piano ben strutturato per dar corpo e concretezza alle sue parole. Perché a parlare con gli slogan siam bravi tutti; ma a cambiare le cose, come è evidente, e nonostante i gran proclami pubblici, no.

La canzone della clip è Io sono io, di Daniele Groff, tratto dall’album Variatio 22 (1998). Daniele è stato un cantautore sfortunato: bravo, anche se non eccezionale, con una voce non straordinaria per timbro, avrebbe meritato sicuramente più successo di autentici bluff come, tanto per non far nomi, Biagio Antonacci o Eros Ramazzotti. E invece eccolo qui, ancora semisconosciuto, con una canzone ironica ma non troppo, piena di citazioni, animata da una bella chitarra elettrica, che in questo momento storico mi rappresenta alquanto ed è da ascoltare a volume parecchio elevato.

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