Non so voi, ma io ho momenti nei quali non posso fare a meno di guardarmi con gli occhi del ragazzo che sono stato (ormai tanti anni fa): forse è una conseguenza inevitabile dell’avere figli, e di vederli crescere giorno dopo giorno, ma i motivi importano poco.
Invece importa di più che a volte io mi riconosca senza fatica: nel lavoro che faccio, nei rapporti che cerco di avere con le persone vicine, nella coltivazione dei miei sogni e delle mie passioni. O che altre volte faccia proprio fatica a riconoscermi in quell’adulto incazzato e insoddisfatto che si muove in giro per il mondo con la grazia di un caterpillar, dimenticando (come spesso mi viene ricordato, e talora non senza ragione) che se non esistessero le sfumature di grigio noi radiologi saremmo una categoria di disoccupati.
Quando compi quaranta anni scopri che è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e, come nella favola dei tre porcellini, smettere di essere pigri e costruire una casa bella solida che nessun soffio di lupo potrà mai abbattere.
Ma intanto c’è la crisi. Che arriva proprio quando tu sei pronto a tutto; senza capire se la crisi riguarda l’economia, la morale delle persone, la logica e l’onestà con cui governare un paese o un reparto di radiologia (che poi è quasi la stessa cosa), l’esistenza di Dio, o tutte queste cose insieme.
Ti chiedi che mondo lascerai in eredità ai tuoi figli: ma sei un povero illuso perché i tuoi genitori non si sono ancora decisi a mollarla a te, la loro eredità. E il bravo quarantenne, bontà sua, partecipa alla rovina dell’impero ancora da semplice spettatore.