La mente di Peter Pan

di | 7 Settembre 2011

Di recente ho conosciuto Peter Pan. Non più giovanissimo, se 38 anni vogliono ancora dire qualcosa, ma il pizzetto biondo platino deponeva per almeno una ventina di anni in meno di quelli anagrafici.

Peter Pan, il mio almeno, guida la moto. E quella notte era uscito fuori strada. Senza concorso di altri veicoli, pare: ma si sa, i ragazzini come lui hanno scarsa memoria. Vai a sapere se fosse stato speronato da un Suv o se un improvvido ciclista gli avesse tagliato la strada.

Fatto sta che Peter Pan era in pronto soccorso, disteso sul lettino dell’ecografia, sotto la coperta termica. Quando sono entrato nella stanza era in compagnia di una giovane infermiera, e stava sfoderando tutto il suo migliore repertorio di boutade. Anche se indossava il collare cervicale e il petto era una carta geografica di escoriazioni ed ecchimosi: certe volte, purtroppo, la polvere di fata non rende l’asfalto della strada più morbido.

“Tu sei il dottore dell’ecografia?” mi ha chiesto Peter Pan.

Io ho annuito e lui ha ribattuto: “Allora chiamami Rudy”.

“Rudy?” ho chiesto io. “Ma lei non si chiama Peter?”

“Peter per gli estranei, ma Rudy per gli amici” ha concluso lui, con un ghigno soddisfatto.

Intimamente fiero di essere annoverato tra gli amici stretti di Peter Pan, ho cominciato l’ecografia. Peter, anzi Rudy (per gli amici), ha continuato la corte spietata all’infermiera, chiamandola ogni volta con un nome diverso. Una raffinata tecnica di seduzione o soltanto lo shock da incidente stradale? Non lo sapremo mai, sono misteri che fanno parte dell’esoterismo intrinseco di Peter Pan.

L’infermiera si scherniva in tutti i modi: anche perché, si è poi scoperto, doveva sposarsi dopo pochi giorni. Ma Peter, Rudy per gli amici, non demordeva. Una stoccata qui, una battuta là; se avesse potuto muovere liberamente le mani scommetto che gliene avrebbe appoggiata una sul sedere. Io lo guardavo al tempo stesso stupito e divertito, pensando che mai in vita mia sarei stato capace di fare il filo a una sconosciuta mentre me ne stavo disteso sul letto di dolore: già mi sono sempre sentito ridicolo di mio, ogni volta che c’era da attaccar bottone a una sconosciuta, figuriamoci in quelle condizioni pietose. Ma Peter Pan ce le ha le risorse, eccome.

Alla fine ho finito l’ecografia e Peter, anzi Rudy, tutto sommato era uscito integro dal gran botto. La pancia a posto, nemmeno un osso rotto: questo significa essere immortali. Mentre trasportavo la barella fuori dalla stanza ecografica, e lui chiedeva all’infermiera se finalmente era la volta di andare insieme nel privé, mi risuonavano in mente alcuni versi immortali:

Siamo liberi, liberi, liberi di sbagliare
Siamo liberi, liberi,
liberi di sognare
Siamo liberi,
liberi di ricominciare

E lì ho pensato che, visto che in un modo o nell’altro bisogna decidere chi vogliamo che gli altri credano che noi siamo, forse è meglio far finta di essere Peter Pan detto Rudy che il radiologo di guardia. Perché laddove Peter Pan, uscito di strada e mezzo sfracellato, non perde un centimetro della sua verve e ci prova persino con l’infermiera, il radiologo di guardia all’infermiera avrebbe dato del lei e provando persino un po’ di rimorso per averla tirata giù dal letto alle quattro del mattino solo perché era stato così maldestro da uscire fuori strada con la moto.

Ma si sa, Peter Pan è convinto che siamo liberi. Il radiologo di guardia, invece, quasi sempre pensa che liberi non siamo, che viviamo immersi nelle menzogne e che esiste un pudore sottile, una forma quasi trasparente di rispetto, un velo impalpabile che ci divide dal nostro prossimo.

E che, prima di ricominciare, a volte bisogna chiedere il permesso.

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