Beatrice Venezi è il più giovane direttore d’orchestra europeo. O è la più giovane direttrice d’orchestra europea?
Lei ha optato per la prima ipotesi: lo ha detto chiaramente, da un palco prestigioso. Certa, immagino, che l’affermazione avrebbe fatto scandalo. Le sue parole: Per me contano altre cose: la preparazione, il modo in cui si fanno le cose. La mia professione ha un nome, che è ‘direttore d’orchestra’. Immaginatevi le reazioni, in un tempo nel quale non è consentito dire nulla che non sia geometricamente allineato al politicamente corretto così di moda. Per cui non mi resta altra strada che raccontare la mia esperienza personale.
La medicina, lo sapete, da qualche anno è declinata con netta maggioranza al femminile. Il mio reparto, complessivamente, ha una netta prevalenza di donne: a volte ci ridiamo su, prendiamo in giro l’unico maschio rimasto nel reparto dell’Ospedale del Fiume Piccolo, gli diciamo che è una specie di panda, di animale in via di estinzione. Eppure le mie colleghe fanno una fatica bestia. Hanno genitori, mariti e figli piccoli e devono far quadrare i tempi, gli impegni, i risultati richiesti. In un sistema lavorativo creato dagli uomini per gli uomini, loro fanno il doppio della fatica. Si sentono in colpa se scoprono di essere incinte. Si sentono in colpa se il ginecologo dice loro di stare a casa dal terzo mese. Si sentono in colpa se non riescono a tornare presto al lavoro, se usano il congedo parentale, se il figlio ha la febbre e devono restare a casa all’ultimo secondo. In questo sistema, che è intrinsecamente centrato su ritmi e modalità maschili, spesso girano a vuoto.
Come responsabile del servizio in cui lavorano, io non posso fare miracoli. Posso solo aspettare che tornino a pieno ritmo, cercando di non far pesare loro una situazione che già mina alle fondamenta la loro serenità. Posso metterle a loro agio, evitare malumori, aiutarle coprendo le sale diagnostiche se una mattina sono in ritardo per uno dei mille motivi che, da padre, conosco a menadito: capricci, pannolini sporcati all’ultimo secondo, malattie improvvise e impreviste. Quando ero nelle loro condizioni non potete immaginare il peso di arrivare tardi al lavoro e sentire addosso gli sguardi di riprovazione di primario e colleghi, magari quelli senza figli, sentendomi inadeguato come lavoratore, marito e padre. Da primario posso fare poco, dunque: aiutarle per quello che riesco, e basta. Il mio mestiere è metterle nelle condizioni di lavorare serenamente creando le premesse per cui anche i colleghi non coinvolti da questioni di maternità o paternità riescano a condividere i problemi di una mamma che fa un mestiere impegnativo.
Per questo ho trovato l’affermazione della Venezi ricolma di tutto quel buon senso che è stato smarrito negli ultimi lustri. Non ho mai creduto che il rispetto per la donna (o per l’uomo) fosse veicolato dal genere della parola che lo definisce. Se il rispetto esiste non è il genere a determinarlo. Se non esiste, non è certamente il genere a crearlo. Ci stiamo perdendo in questioni di lana caprina che distolgono l’attenzione dal problema principale: le donne, per essere messe in condizioni di parità, hanno bisogno di una revisione massiccia dei sistemi lavorativi che, lo voglio ripetere fino allo sfinimento, sono costruiti dagli uomini e per gli uomini. E non di ardite deformazioni linguistiche che lasciano un segno superficiale e non sottendono alcun cambiamento radicale. Se si desidera davvero cambiare lo stato delle cose c’è un’altra strada da percorrere: quella delle donne in parlamento. È là che bisogna combattere la guerra, battaglia per battaglia, e i soldati devono essere le donne che sono state mandate in prima linea. Se la guerra è giusta, e questa lo è, le donne troveranno anche uomini pronti a sostenerle. Non tutti, non subito: ma qualcuno si. Certe guerre si vincono sulla lunga distanza, aggregando e non disgregando.
Come al solito, però, si preferiscono cambiamenti di facciata e non di sostanza: se ti chiamo direttrice invece che direttore hai avuto il contentino, te ne stai buona e zitta e magari ci ringrazi pure per il privilegio di aver avuto accesso a un mestiere storicamente maschile. Potrei sbagliare, ma credo che la Venezi volesse dire proprio questo.
E credo anche che la Venezi debba essere ringraziata da tutti, pubblicamente: forse non si è capito, ma la sua affermazione sul palco dell’Ariston non riguarda un problema di genere, ma di pura e semplice intelligenza del mondo che ci circonda.