Che poi non è corretto, come titolo, perché io in realtà non mi sento in contrapposizione a nessuna delle figure professionali con cui ho a che fare con il mio lavoro: che siano colleghi ospedalieri o universitari. Ma mi piaceva il suono della frase, che fa molto film di Perry Mason, e anche perché credo che questo blog stia vivendo un momento felice. Ogni volta che si accende un dibattito mi sento come un pesce nell’acqua: il confronto è l’unica via di fuga dallo sfacelo in cui rischiamo di precipitare.
Stralcio dalla lettera del professore:
(…) tuttavia l’Italia non è diversa dagli altri paesi. Al Congresso Americano di due anni fa l’argomento di apertura era l’invasione di campo nella Radiologia di altri specialisti. Ci dimentichiamo che anche noi Radiologi abbiamo invaso il campo ad esempio anni fa con l’interventistica vascolare che era molto osteggiata dai colleghi chirurghi che poi si sono ricreduti e ora cercano di farla loro. Io ho imparato una cosa, che niente nel lavoro è per sempre e quindi bisogna aggiornarsi e non fermarsi. In questo modo si rimane sempre dei professionisti. L’altro principio sempre valido è che le cose le fa chi sa. L’ecografia forse è una causa persa ma noi continuiamo a farne tante perché la facciamo meglio. Per quanto riguarda gli specializzandi e i loro pensieri dovrebbero invece darsi una mossa. Tra i miei ne ho di bravissimi ma altri sono dei pigri che non si riesce a stimolare. Questi non hanno futuro.”
Direi che dentro c’è quasi tutto, no? In particolare due principi fondanti della nostra vita, professionale ma anche no: che se non studi e ti aggiorni resti irrimediabilmente indietro (radiologia clinica!); e che le cose vanno fatte da chi sa farle, non da chi millanta (questa è un’affermazione che mi suona familiare, visto che me la sento ripetere con frequenza quasi settimanale da ormai sei anni…). Purtroppo non mi consola il fatto che il problema delle invasioni di campo sia comune anche ad altri paesi: non sono di quelli che mal comune mezzo gaudio, e poi bisognerebbe conoscere una per una le singole realtà mediche nazionali e le loro peculiarità. Mi sta molto più a cuore che il problema venga affrontato in Italia, e allora passiamo alle note dolenti.
Sono stato specializzando anche io: ho finito la scuola nel 1999, con un anno di ritardo per una emozionante scorribanda nel mondo del servizio di leva (svolto alla veneranda età di 28 anni). Poi ho lavorato per molti anni, e ancora ci lavoro, in un reparto ospedaliero a cui afferisce annualmente un buon numero di specializzandi di scuole vicine. E siccome sono uno di quelli per cui non solo lo specializzando al seguito non è un fastidio, ma piuttosto uno stimolo a crescere, credo di poter parlare con una certa cognizione di causa.
E, senza ovviamente fare di ogni erba un fascio (conosco personalmente professori universitari così appassionati dalla didattica da sacrificare in suo nome anche una parte della loro vita privata), posso affermare che la gestione attuale degli specializzandi non è propriamente ottimizzata (trattasi di eufemismo, perdonatemi). Tanto della formazione è lasciato all’iniziativa personale, che a volte c’è ma molte altre volte, come sottolineato, latita. Spesso non esiste nessun progetto organico di crescita culturale e professionale, strutturato nei quattro o cinque anni di specialità: ci sono studenti che nel corso di studi si occupano solo di una o due metodiche di imaging; studenti che per quattro anni si sono occupati solo di TC (sapete, quando uno è in grado di sostenere il peso di una diagnostica copre i buchi di organico della struttura in cui lavora: e allora perché cambiargli posto?); ci sono studenti che sanno refertare una risonanza magnetica di mammella, o embolizzare un vaso arterioso che sanguina, e poi si perdono di fronte a un radiogramma del torace. Come ho già detto in diverse occasioni: non si può accettare che l’apprendimento di uno specializzando in radiologia parta dagli argomenti di maggior complessità. Se a uno specializzando non vengono forniti i fondamentali, il risultato sarà uno specialista raffazzonato: come ho imparato a mie spese, nella vita lavorativa, quello che conta non è la cultura ma il metodo. Il metodo ti salva le chiappe quando sei nei guai, la cultura invece la trovi in qualunque libro; ma se non possiedi il metodo non sai nemmeno dove cercare le informazioni giuste.
La maggior parte degli specializzandi fa turni nelle varie diagnostiche di due o tre mesi al massimo: la mia esperienza personale mi ha insegnato che in due o tre mesi nemmeno di fai un’idea di cosa stai guardando. Nell’ordine, questo è quello che ho fatto io da specializzando: il primo anno ecografia; il secondo anno tutta la tradizionale e la contrastografia urinaria; il terzo anno e parte del quarto TC; gli ultimi sette mesi la contrastografia dell’apparato digerente. Attenzione: non sto dicendo che è stato un processo formativo impeccabile, anzi; ma almeno quelle due o tre cose di cui mi ero occupato riuscivo a gestirle tranquillamente fin dal giorno dopo la prima assunzione, con grande sollievo del mio primario dell’epoca. Le mie domande quindi sono le seguenti: possibile che non si riesca a omogeneizzare il processo formativo degli specializzandi radiologi nelle innumerevoli sedi italiane? Possibile che ogni singola scuola difenda con le unghie e con i denti brandelli di storia remota e altari innalzati decenni prima, e ritenga di essere in possesso della verità radiologica assoluta? Possibile che, tanto per fare un esempio a me particolarmente caro, cento scuole di specialità differenti insegnino cento modelli di refertazione, ognuno differente dall’altro?
Quanto al resto, concordo sull’affermazione che alcuni specializzandi nascono inerti e diventeranno radiologi informi. E, certo, è difficile intervenire sulla pasta di cui sono fatte le persone. Il guaio è che non è vero che gli inerti non hanno futuro. In radiologia si trova lavoro senza grossa difficoltà e in futuro si lavorerà ancor più facilmente di adesso: l’inerte lo troverà sempre, un buco in cui nascondersi e sbarcare il lunario. Io mi chiedo solo quanto peso hanno i concorsi di specialità, e dove sta scritto che qualunque specializzando alla fine debba per forza specializzarsi: magari non è quella la sua strada, e magari una scelta di convenienza andrebbe scoraggiata sul nascere. Ma questi sono discorsi che non mi competono: posso solo limitarmi ad accogliere gli specializzandi con la massima disponibilità, e a ringraziarli quando vanno via per quello che mi hanno lasciato e per quello che mi hanno costretto a lasciare loro. Sperando che serva a qualcosa, e che io possa restituire una parte, anche se infinitesimale, di quello che è stato dato a me.
PS So che molti universitari seguono da tempo questo blog. L’invito a tutti, ufficiale questa volta, è a iscriversi e a partecipare alle discussioni. Tutti abbiamo storie da raccontare ed esperienze da condividere: e la condivisione delle nostre esperienze è esattamente quello che mi chiedono le centinaia, tra studenti di medicina e specializzandi, che mi hanno scritto in questi anni di blog.
PPS E un ringraziamento ad Austera, che ha permesso questo scambio di pareri. E’ lontana migliaia di chilometri, ma resta sempre una delle due pupille dei miei occhi.