No, non ditemi niente. Lo so che oggi il tiro alla nazionale di calcio è lo sport più in voga, che è come sparare sulla croce rossa o, per usare le parole di un mio caro amico, come picchiare uno che sta facendo la cacca. E ammetto anche di non guardare più un mondiale di calcio dal 1998, e persino di non conoscere i nomi e le facce di tre quarti dei calciatori italiani andati in Sudafrica (i miei colleghi parlano di calcio e io sto a sentire senza dire nulla, nemmeno discettassero di astrofisica nucleare). E’ solo che non mi capiterà mai più di lavorare in reparto, un pomeriggio qualunque, e non sentire neanche un rumore, o passi nel corridoio, o qualunque altro segno di vita intelligente. Nemmeno i mormorii di gruppo, gli ooooohhh e gli aaaahhhh di quando l’Italia segna o va vicino al gol: perchè, a quanto pare, non c’è praticamente mai andata vicino.
E allora vi propongo una mia teoria alternativa (completamente off topic rispetto al tema principale del blog, ma non vogliatemene). Quattro anni fa la finale mondiale Italia-Francia l’ho vista: e, come sa chi mi conosce, più che gioire della vittoria mi sono vergognato del modo in cui era maturata. Una squadra che vince una finale mondiale, ai rigori, dopo aver stentato dalla prima all’ultima partita ed essersela cavata solo perchè ci si era fabbricati un muro umano davanti alla porta, beh, personalmente mi entusiasma poco. E infatti ho sempre pensato che la famigerata testata di Zidane a Materazzi non fosse frutto di rabbia e frustrazione (perchè è francamente snervante giocare contro undici difensori), o il colpo di matto di un calciatore stanco a cui avevano appena offeso la mamma. Ho piuttosto creduto (o voluto credere, sebbene con un certo sforzo, perchè Zidane non è che mi stesse simpatico a pelle) che la testata fosse un gesto di simbolica rivolta dell’indiscusso campione contro uno degli esponenti della squadretta di pellegrini che di lì a poco, e in modo del tutto immeritato, avrebbe rischiato di vincere una partita che invece per un innegabile senso di giustizia divina doveva perdere, e per giunta con una goleada da storia. Insomma, non un banale scatto di nervi ma una calcolata manifestazione di disprezzo sportivo e chissà, forse anche umano. Un gesto che avrebbe meritato l’espulsione, ma al tempo stesso l’avrebbe pienamente giustificata; e trasposto il suo autore nella storia del calcio, molto più degli undici fanti da trincea intenti a percorrere il giro di campo finale con la coppa nelle mani.
Adesso, dopo quattro anni, i nodi vengono al pettine. E pur con l’attenuante (o l’aggravante) dell’essere itagliani, perchè chissà quanti di quelli che a Piazzale Loreto infierirono sul cadavere di Mussolini erano in piazza ad acclamarlo soltanto un mese prima, ho l’impressione che il malcontento generale nasca non tanto dalla sconfitta in sè quanto dalla situazione attuale di crisi che tutti stiamo vivendo, chi più chi meno. Perchè agli statali bloccheranno gli stipendi per quattro anni, agli ospedali taglieranno i viveri, alle scuole negheranno i supplenti, nei tribunali i giudici onorari dovranno restituire cospicue fette di emolumenti ricevuti per un sacrosanto lavoro. Mentre invece il gladiatore nazionale che è arrivato ultimo in un girone di squadrette di quartiere fila via dall’aeroporto a bordo di una Porsche Carrera, con le orecchie basse ma il portafoglio bello gonfio.
Per cui va bene l’ignoranza inestinguibile del calciatore, su cui qualcuno si è pure costruito una fortuna alternativa. Va bene l’ingaggio stratosferico, a fronte dell’operaio che chissà se li guadagna, mille euro al mese. Vanno bene la fama, la notorietà. Va bene la velina che neanche li avrebbe degnati di uno sguardo, se nella vita avessero seguito una qualunque altra strada consona ai propri talenti intellettuali. Vanno persino bene gli allenatori che una volta si vergognavano pure di parlare davanti alle telecamere, mentre adesso si danno aree da liberi pensatori.
Il punto è che, cavolo, siete pagati miliardi per fare i giullari in mezzo a un campo di calcio.
Almeno fateci divertire.