Quando sono arrivati è di lei che mi sono accorto subito: teneva gli occhi a fessura, con una specie di smorfia strana sul viso, e lui la portava per il braccio. Gli sono andato incontro, ho chiesto se cercassero il dottor Gaddo: lui ha subito detto di si e siamo entrati nella stanza ecografica.
Poi ho chiesto che lei si stendesse sul lettino con la pancia scoperta; lui mi ha chiesto dove, io gli ho indicato il lettino e lui mi ha detto, gentile: Dovrebbe indicarmi dove, sono un non vedente.
Io confesso che non me ne ero accorto: certo, indossava occhiali da sole, ma d’altronde tatuaggi o occhiali da sole servono a quello, a comunicare carisma e sintomatico mistero, non ad altro. E sono rimasto allibito perché lui si muoveva sicuro, senza esitazioni, imboccava le porte al centro e sembrava completamente padrone del suo spazio vitale.
Per cui mi sono scusato, anche se non c’era nulla di cui scusarsi, e ho condotto lei sul lettino. Lui è rimasto accanto per tutto il tempo, tenendole la mano, poi le ha asciugato la pancia dal gel con dolcezza, senza esitazioni. A fine esame ha ritirato il referto, allungato il bastone con uno scatto secco, mi ha salutato e sono usciti dalla stanza.
Mi sono affacciato anche in corridoio, a guardarli andar via: lui le teneva il gomito, guidava per entrambi, il suo bastone saggiava il pavimento davanti ai piedi di lei; e lei si lasciava portare, docile, sicura, ricolma di fiducia.
E ho pensato che l’amore è cieco, forse, ma certe volte ci vede proprio benissimo.