Il signore ha avuto un ictus, si vede lontano chilometri. Quell’espressione vacua, uguale all’espressione di tutti i poveri disgraziati a cui è toccato in sorte un ictus e sono sopravvissuti; la mano rattrappita, il bastone per accompagnarsi fino al lettino dell’ecografia. Tu che gli parli e non sai se capiscono o meno le tue parole, e se le capiscono fino a che punto, nella enorme difficoltà di decifrare un’espressione facciale senza più espressione facciale.
Quando sento parlare le persone di dolore, di disgrazie e momenti difficili, un secondo prima di ricondurle a un minimo di ragione, è a quell’espressione del viso che penso: che testimonia l’esserci senza più esserci, la regressione a uno stato primitivo, il diventare di peso al prossimo e magari pure accorgersene, ma non poter comunque far nulla per evitarlo.
Tuttavia il signore è accompagnato da una donna, sua moglie, che nel tempo ha imparato a muoversi in modo complementare al marito offeso: si piega quando lui si irrigidisce, sa meglio di lui come farlo distendere sul lettino, conosce l’angolo massimo di flessione del gomito, quello del lato sbagliato. Lei e il marito si muovono come un corpo solo, la moglie è solo diventata un altro arto del corpo martoriato.
E io tutte le volte rimango incantato. Certo, immagino momenti di profondo scoramento o anche solo di semplice stanchezza fisica. Immagino donne che al momento dell’accidente del marito erano ancora giovani, magari piacenti, con un’aspettativa di vita davanti che non significava solo quantità di anni da far trascorrere in qualche modo, qualunque esso fosse. Eppure quella donna è lì, accanto all’uomo che ha sposato e forse amato, a modo suo s’intende, con il quale avrà di certo avuto figli da crescere e traslochi da fare e bollette da pagare e crisi economiche di cui lamentarsi. E’ lì, giuro che in quel momento preciso lei è lì, e non ha abbandonato il suo uomo nemmeno nel peggior momento possibile: quello di un male che non se lo è portato via, sarebbe stato troppo comodo, ma lo ha trasformato in altro, un uomo primitivo, incapace anche di pisciare da solo. Un male infame che gli ha levato la dignità per la quale, un giorno lontano, lei lo ha amato.
Ed è proprio così che immagino l’amore vero, io: aver amato così tanto una persona da essere disposti a occuparsi fino alla fine dei giorni del suo involucro, della sua crisalide l’incontrario, solo perché un giorno quel simulacro pallido ha contenuto l’essenza vitale dell’amore della propria vita, l’unico possibile, l’unico che ci è concesso in sorte in una vita intera di tentativi quasi sempre infruttuosi.
L’unico che può mitigare l’infamia di una esistenza folle in cui chi ha vissuto con dignità e schiena diritta può ritrovarsi infermo, degradato, di peso persino a chi ha amato.