L’arte di incassare una critica

di | 29 Agosto 2011

Poichè le ferie sono terminate, nonostante una coda inattesa di due giorni, e si approssima l’immersione in una stagione lavorativa le cui difficoltà in questo momento nemmeno voglio immaginare, c’è una riflessione personale, una delle tante, che voglio condividere sul blog. E’ una riflessione personale, ripeto: ma l’inserimento nella categoria Hospital lascia intendere che gli addentellati con la vita lavorativa ci siano (e d’altronde, in un luogo in cui passi più della metà del tempo da sveglio, non vedo come potrebbe essere altrimenti).

A me, lo dico senza pudore, le critiche hanno sempre dato fastidio. O perchè non le meritavo, e le critiche ingiuste mi fanno da sempre, da che ricordo di essere al mondo, fumare le orecchie; o perché credevo di non meritarle ma invece le meritavo, e quindi oltre al danno anche la beffa, ossia qualcuno aveva visto dentro di me con maggior chiarezza di quanto riesca a fare io (e si che di tempo dietro a me stesso, cercando di capire cosa penso, ne perdo parecchio); o perché le meritavo e sapevo di meritarle, e non esiste al mondo nessun autofustigatore più accanito del presuntuoso che partorisce una cazzata.

Poi, qualche tempo fa, qualcosa è cambiato. Non so esattamente perché qualcosa sia cambiato, nè quando sia cambiato. C’è che un giorno mi sono svegliato, ho riflettuto sulle critiche che avevo ricevuto il giorno prima e ho pensato alcune cose. Primo: partorisco cazzate anche io, devo mettermi l’anima in pace, se impegnassi tutte le mie energie quotidiane  a non partorire cazzate diventerei uno svincolo autostradale di nevrosi (e ho già le mie di capitolato a cui badare, dunque va bene così). Secondo: partorire una cazzata aiuta a distinguere gli amici dai meno amici, laddove l’amico te la mostra nella sua interezza, senza filtri e possibilmente senza giudicare, mentre il meno amico aspetta che esci dalla stanza comune e poi ne ride con gli altri. E’ anche vero che non si può stare simpatici a tutti, ma è anche vero che esiste un’etichetta, uno spessore umano che ti rende civile anche con chi ti sta sulle palle. Esempio istituzionale: se non sei d’accordo con la politica del tuo primario puoi irrompergli nello studio e discuterci due ore, anche animatamente, oppure puoi limitarti a mugugnare a voce più o meno alta negli angoli bui del reparto. E riflettendoci bene non è nemmeno questione di etichetta: è solo la misura di quanto voglia essere costruttivo (o distruttivo) il tuo apporto al sistema. Tanto l’entropia complessiva aumenta comunque: ma se tendi alla demolizione di norma ti fai anche il sangue amaro, e poi ti ammali. Terzo: la critica fa bene, è salutare, è un’autentica botta di vita. La critica ti strappa all’anonimato, ti mette al centro del palcoscenico ma al tempo stesso il palcoscenico poi lo distrugge. La critica, se la incassi bene, ripristina il sistema allo stato originario, lo formatta cancellando spazzatura, icone inutilizzate, virus, trojan horse, copie di copie di files dimenticati. La critica, in un certo senso, ti fa pure sentire amato: in quel momento, che tu abbia torto marcio o ragione da vendere, ti mette in comunicazione diretta con chi ti ha criticato e apre un canale che prima era chiuso. E si sa, senza un po’ di amore non può esserci il vecchio sano odio.

Tutto questo per dire, insomma, che mercoledì ritorno al lavoro con il sistema resettato. E che Iddio ce la mandi buona.

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