Lavorare stanca

di | 30 Marzo 2012

Ci ho pensato a lungo, prima di scrivere questo post: che discende da un altro post, a firma dello Scorfano, in cui lui aveva già detto tutto quello che c’era da dire e con un dono della sintesi che a me purtroppo quasi sempre sfugge. Il post parlava delle esternazioni del presidente di Mediobanca a una platea di giovani, riassumibili nel seguente concetto: Bisogna lavorare, lavorare il più possibile, e non esiste nessun valido motivo per cui non si debba lavorare anche la domenica.

Adesso, voi che mi conoscete da parecchi anni vi siete fatti una mezza idea su quanto io ami il mio lavoro e cerchi, purtroppo senza riuscirci, di praticarlo al massimo livello qualitativo possibile. Però, voglio confessarvi questa macchia nera che mi sporca la coscienza e mi farà passare per bamboccione, quando ho il fine settimana di guardia, e devo stare in ospedale sabato 8-20 e domenica 20-8, a me girano un po’ le palle. Per una serie di motivi: intanto ho lavorato gli altri giorni della settimana, tanto per dire, e per esperienza personale di indefesso lavoratore ospedaliero dopo cinque giorni del mio mestiere se non stacchi la spina almeno un giorno fondi i lobi frontali. E non è solo questione di fatica mentale, che vi assicuro essere notevole perché tenere alto il livello di attenzione per otto o nove ore al giorno, quando stai giocando sulla pelle delle persone, non è proprio una passeggiata di salute: è proprio bisogno fisico di dedicare cura a sé stessi perché le sofferenze del prossimo, seppur traslate sulle scansioni TC o sulle sequenze RM, infliggono dolore anche a chi le deve studiare. E’ come se il mestiere di un professore consistesse unicamente nell’elencare le insufficienze dei propri alunni, tanto per capirci, e non nel valorizzarne i meriti.

Poi si potrebbe continuare su luoghi comuni banali e facilmente condivisibili, tipo che uno c’ha pure una famiglia, degli amici, un cane a cui prestare attenzioni e della cui compagnia, semplicemente, godere senza essere sfiancato dalla tensione emotiva e dalla fatica fisica di un lavoro continuato sette-giorni-su-sette. Potrei persino esagerare e dire che qualcuno di noi comuni mortali coltiva svilenti passioni alternative: a qualcuno piace leggere, a qualcun altro scrivere, a qualcun altro ancora fare fotografie o leggere fumetti o comporre origami o coltivare fiori in giardino o guardare tramonti o, che dico, viaggiare su altre tratte che non siano quella casa-ufficio e ufficio-casa.

Infine si potrebbe tentare l’affondo finale, farsi venire dubbi sulla sanità mentale di una persona che esprime di fronte a quattrocento testimoni sbigottiti un concetto così aberrante come “non esiste alcun valido motivo per non lavorare anche la domenica”: vista la differenza di età e di carisma tra le due parti in campo siamo ai limiti della circonvenzione di incapace, e un tribunale all’antica di quelli che dico io potrebbe condannarlo a bere un bel bibitone di cicuta per aver cercato di corrompere i giovani. Troppo, troppo facile attaccarsi invece a questioni di stampo psichiatrico: disturbi dell’affettività, nevrosi ossessivo-compulsive che spingono un individuo a non fermarsi mai, fosse anche solo a riflettere sulla strada che sta percorrendo e sulle persone lasciate indietro per procedere a quella terribile velocità di crociera. Dunque non lo farò, perché per grazia divina non ho scelto di fare lo psichiatra (e poi non ho il ciuffo liscio che mi cade sulla fronte spaziosa né i baffoni folti, quindi non mi avrebbero nemmeno preso in specialità).

E allora ve lo dico, il motivo per cui ho scelto di scrivere lo stesso questo post nonostante lo Scorfano avesse davvero già detto tutto quello che c’era da dire. Il motivo sta nell’idea stessa di lavoro che pregna il nostro paese: laddove il lavoro deve essere di quantità e non importa se un onesto lavoratore è in grado di svolgere le stesse mansioni in metà del tempo prescritto dalla circolare ministeriale, in Italia c’è questa ossessione perversa nei confronti del tempo, del tempo che devi stare in ospedale, del tempo che non puoi passare fuori dall’ospedale, del tempo che impieghi a mangiare se vai in mensa, del tempo di cui hai bisogno se non vai a mangiare ma devi comunque fare pausa, insomma il tempo del lavoro italiano non è aderente alla realtà dei luoghi lavorativi ma è un tempo burocratico che non tiene conto né delle esigenze di servizio né dello stato di salute del lavoratore, che magari alle tre del pomeriggio può essere sfasciato perché di notte ha dormito poco o si trascina i postumi della guardia notturna infame dell’altro ieri. Io stesso, che sono un dirigente medico, sono costretto alla timbratura quotidiana del cartellino, sette ore e trentasei minuti al giorno, e ricevo ogni mese un documento ufficiale che mi ricorda con precisione staliniana quando sono entrato e quando sono uscito dall’ospedale, ogni giorno, quante ore al mese ho lavorato in più (che fa nulla) o in meno (che fa molto, invece).

In tutta questa nevrosi oraria, in virtù della quale le istituzioni sono soddisfatte solo se tutti abbiamo il singolo minuto secondo giustificato di fronte alle Leggi, nessuno si pone mai il problema di come lavoriamo, della qualità del nostro lavoro, del nostro livello di soddisfazione nel praticarlo: che non è una considerazione secondaria, tutti ci rendiamo conto che lavorare in un ambiente sereno e regolato da meccanismi corretti fa lievitare non solo la qualità ma anche la quantità del nostro lavoro; e francamente trovo incredibile che in mezzo a tanti progetti di controllo della qualità nessuno si ponga il problema di controllare quanto amore e quanta passione mettiamo nella nostra fatica quotidiana, e dei vantaggi che deriverebbero in linea verticale da questi due apparentemente inutili e collaterali sentimenti.

Insomma, per dirla anche io in due parole (che forse era meglio): a me le persone così mi terrorizzano, non mi fanno dormire di notte e mi fanno venire gli incubi. Perché l’alternativa al disturbo compulsivo della personalità del presidente è che dietro affermazioni così pesanti ci sia un progetto ben preciso, un progetto politico intendo, uno di quelli che se ripeti abbastanza a lungo e da sedi istituzionali la gente comincia a crederci: ma ho giurato a me stesso che non voglio più vedere complotti dappertutto, e che se anche i complotti ci fossero camperò molto meglio senza accorgermene.

A patto che mi facciano riposare almeno di domenica.

Lascia un commento