Il commento di Matteo all’ultimo post è molto più complesso di quanto la sua brevità lasci supporre, e merita non una replica ma un post a parte.
Matteo dice: (…) visto che pare impossibile far capire ai medici “invianti” che quaste richieste d’esame sono semplicemente demenziali, credo sia giunto il momento di affrontare in modo serio il problema rifiutandoci di eseguire le prestazioni. So che è rischioso (per noi) ma purtroppo nessuno dei nostri vertici (SIRM , professoroni , primari ecc) è interessato a risolvere SERIAMENTE l’annoso problema delle richieste inappropriate (…).
Scusatemi se adesso userò di seguito almeno due circonlocuzioni prese di peso dal lessico dei politicanti italiani, e che immagino facciano ribrezzo alla stragrande maggioranza dei lettori del blog, ma ci sono praticamente tirato per la giacca (e sono tre, ve l’avevo detto che stasera butta proprio male): sulle affermazioni di Matteo bisogna fare dei distinguo, altrimenti si rischia di buttare il bambino insieme all’acqua sporca.
Primo: come si fa, nella pratica, a rifiutare le prestazioni radiologiche che ci vengono richieste? Vorrebbe dire, in buona sostanza, sostituirci al medico di pronto soccorso, visitare ogni paziente, valutare gli esami del sangue e/o richiederne altri, decidere la terapia. Ma noi siamo “solo” consulenti, il paziente non è nostro ma di chi viene pagato (male) per fare il suo mestiere di specialista dell’urgenza. Senza contare che poi bisognerebbe spiegare al paziente il perché del contenzioso tra colleghi, rischiare di scazzottarci davanti a lui se i caratteri dei contendenti non fossero animati da mitezza di fondo, e sentirci dar torto marcio dalla Direzione perché stiamo interferendo con il lavoro dei colleghi e allungando in modo terribile i tempi di attesa dei pazienti che stazionano in pronto soccorso (ma a quel punto della storia sarebbe già arrivata anche la Benemerita, chiamata da qualche solerte cittadino innervosito dalle due o più ore di sterile attesa).
Secondo: non diamo alla SIRM più colpe di quelle che ha. La Società ha prodotto documenti tutto sommato condivisibili: e sto parlando del tabellario degli esami (che ogni giorno sta a ricordarci quanto in più lavoriamo rispetto a quanto sarebbe dovuto), delle varie pubblicazioni sulle linee guida in urgenza e di quel magnifico lavoro sul referto radiologico che siamo noi, soldatini di trincea, i primi a non voler mettere in atto nella pratica quotidiana perché in fondo ci fa più comodo descrivere che osare le conclusioni diagnostiche. E’ un po’ come quando rimproverai a Siani, che è stato uno dei pochi presidenti SIRM degni di questo nome, che nella scelta dei primariati la SIRM lasciasse campo libero a tutte le possibili considerazioni generali e particolari, salvo quelle legate alla competenza professionale. E Siani mi fece capire che fin lì la SIRM davvero non ci può arrivare: senza contare che se fosse la SIRM a designare i candidati ai posti da primario si sposterebbe solo il centro del problema senza risolverlo. Adesso i primari li sceglie la politica, mentre una volta li sceglievano i baroni universitari: e quale scenario è il migliore? Mi è stato raccontato (da sempre spero che non sia vero, ma pavento il contrario) di un professore universitario che si vantava di aver messo nel più importante ospedale della sua zona il più coglione dei suoi collaboratori: tutto può diventare manifestazione becera del proprio potere, e chiunque si sia specializzato (almeno in Italia) sa che razza di gente alberghi nelle varie sedi universitarie.
Dove voglio arrivare? Il primario uscente del pronto soccorso del mio ospedale, con cui non sono mai andato troppo d’accordo (e non ho perso occasione di farglielo notare), in fase di diverbio usava esordire con la frase: “Le nostre linee guida dicono…”. E io in tanti anni non sono mai riuscito a fargli capire che non esistono le mie linee guida e le sue linee guida, ma soltanto una traccia profonda basata sull’evidenza scientifica che va adattata alla situazione contingente sulla base del buon senso, quello medico e comune, dell’uomo della strada. Così come non sono riuscito a fargli capire che le linee guida, in urgenza, vanno semplicemente condivise. Bisogna sedersi intorno a un tavolo e fare una cosa tra le più difficoltose del mondo: perdere tempo e rompersi i coglioni, perché solo in questo modo si posso mettere paletti comuni che non vadano giù come stecchetti dello shanghai ogni volta che un radiologo o un medico del pronto soccorso si alzano dal letto con la luna storta. Ma, e qui torniamo a molti dei post del recente passato, quanti primari avete trovato che abbiano voglia di impegnarsi in un progetto difficile che necessita di una grossa perdita di tempo?
Lo so che vado sempre a battere lì: ma la lingua va dove il dente (mi) duole. Il nodo di Gordio sono i primari: gli amministratori si arrabattano a far quadrare il bilancio e a non inimicarsi chicchessia, e ne conosco solo due o tre davvero attenti alla qualità del lavoro; ai pazienti non gliene frega niente, vogliono il servizio in tempo reale e paradossalmente non si accorgono nemmeno della differenza tra una prestazione ottima e una scadente (altrimenti non si spiegherebbe il ricorso massivo a strutture private che, almeno dal punto di vista radiologico e almeno dalle mie parti, lasciano alquanto a desiderare). In mezzo noi, ossia i medici; e, ancora più in mezzo, i primari. Ecco perché l’altro giorno scrivevo che un primario può cambiare le cose, se vuole. Non deve perché nessuno lo obbliga, e anzi a volte i cretini vengono promossi a sedi più prestigiose: perché l’Italia è quel paese in cui il nome spesso te lo fai con la presenza fisica o con l’autoreferenzialità.
Cos’è, allora, qualità? Rompersi le scatole, sudare, sbuffare, coinvolgere, resistere, entusiasmare, vedere lontano. Ma ci vuole un progetto serio, e tanta energia da spendere; invece qualcuno vuole andare in pensione con lo stipendio da generale invece che da colonnello, e qualcun altro glielo lascia fare.