Le autostrade sono piene di eroi distrutti alla guida della loro ultima possibilità

di | 1 Gennaio 2017

Scusatemi se comincio l’anno con una polemica; ma tant’è e poi ogni anno, da qualche tempo, di questi tempi mi vengono sempre gli stessi brutti pensieri.

Come ogni fine anno, anche nel 2016 il bravo radiologo deve pensare all’assicurazione professionale per l’anno a venire: quella che dovrebbe salvargli il sedere nel caso malaugurato in cui commetta un errore grave, il paziente denunci lui e/o l’Azienda per cui lavora e l’Azienda decida di rivalersi sul medico stesso. Si chiama RC, responsabilità civile, per ricordarci che l’Italia è il solo paese al mondo, insieme al Messico e alla Polonia, nel quale il medico è soggetto anche alla RP, cioè la responsabilità penale legata ai suoi errori.

E no, oggi non voglio parlare del medico come figura infallibile e al di sopra di ogni sospetto: perché i medici sono persone comuni e sbagliano come tutti gli altri lavoratori, fanno errori anche grossolani di cui a volte essi stessi si accorgono perché si tratta di sbagli che in altri 99 casi su 100, davanti allo stesso identico esame, non commetterebbero. Ma sapete com’è, anche un medico può avere brutti periodi, essere stanco, avere maretta in famiglia, un figlio ammalato, una moglie con la sclerosi multipla o un tumore al cervello, problemi di soldi, un primario stronzo, eccetera. Quindi non farò riferimenti alla qualità degli errori né sosterrò che non dobbiamo rispondere degli stessi; sebbene uno possa chiedersi, legittimamente, perché altre categorie professionali non ne rispondano o debbano risponderne in misura molto minore. Ma questo è un altro discorso, e lo faremo un’altra volta.

Oggi voglio solo informare i nostri pazienti, proprio loro, di uno straordinario paradosso della mia professione. Io sono un medico radiologo che, in virtù di un contratto collettivo nazionale, guadagna sempre la stessa cifra (peraltro ferma dal 2009, data dell’ultimo rinnovo del contratto stesso): che si limiti a refertare la fratturina dello sciatore in Val Zoldana o che posizioni in urgenza protesi aortiche a pazienti che altrimenti renderebbero l’anima al creatore in poche ore. Ma fin lì ci siamo: l’Italia è quel paese cattocomunista in cui, come mi ricordava di recente il mio amico Giancarlo, la meritocrazia è ancora un concetto classista.

Il paradosso è un altro. Quando a fine anno mi iscrivo alla mia società scientifica, la SIRM, e contemporaneamente stipulo il contratto assicurativo per la responsabilità civile, mi viene chiesto: tu fai attività radiologica normale o anche senologia e attività interventistica? Perché nel primo caso pagherai un tot e nell’altro, siccome di tratta di prestazioni a rischio elevato, pagherai un tot più altri 300 euro. In buona sostanza mi si sta dicendo che la mia attività lavorativa “speciale”, quella che mi caratterizza come professionista di livello elevato, non soltanto vale nulla dal punto di vista dello stipendio di fine mese, ma addirittura mi penalizza economicamente perché sono costretto a spendere di più per assicurarmi contro gli eventuali eventi avversi connessi alle mie prestazioni.

Cioè, capite, se io come medico mi sbatto per imparare a pungere una lesione polmonare che altrimenti potrebbe essere caratterizzata solo chirurgicamente, con un rischio assai maggiore per il paziente, o salvo la vita a persone con l’aorta scoppiata, o metto a disposizione le mie competenze per diagnosticare un cancro della mammella a una donna giovane, bisogna che io paghi in prima persona, dal punto di vista assicurativo, questa mia competenza aggiuntiva. Insomma, come radiologo io devo assicurarmi a un prezzo maggiore solo perché un paziente possa avere accesso a una prestazione più sofisticata che altrimenti non sarebbe erogata. Lo vedete il paradosso, che nulla ha a che fare con l’errore umano che comunque è sempre dietro l’angolo?

Allora la questione, al principio di questo 2017 dal quale francamente non mi aspetto rivoluzioni se non in senso negativo, è semplicemente questa: visto che si parla in continuazione di umanizzazione delle cure, che ne diciamo di metterci a tavolino e riflettere su questi gloriosi paradossi che stanno rendendo difficile, se non impossibile, la vita del medico? Pensate che sarebbe migliore un mondo in cui i medici sbagliano meno perché, semplicemente, smettono di erogare prestazioni complesse? Credete che sarebbe più sicura la vita della vostra prole in un mondo in cui il medico sbaglia la diagnosi della rara frattura orbitaria di vostro figlio ma si rifiuta di operarlo perché la procedura è troppo rischiosa? Pensate davvero che una sanità gestita da tiraossi e cerusici sia migliore di quella moderna, in cui gli uomini possono anche sbagliare nel singolo caso specifico, ma negli altri 99 risolvono i vostri problemi e vi consentono di campare fino a novant’anni? E siete davvero convinti che denunciare un ospedale, un’Azienda ospedaliera, un gruppo di professionisti, comporti un miglioramento reale delle diagnosi e delle cure e preservi altri pazienti da danni analoghi? O l’unica motivazione che vi spinge a far casino è il rancore accumulato, lo stesso che vi fa odiare il resto del mondo ogni giorno che il Padreterno manda in terra, o che tutto sommato va bene lo stesso perché ci si guadagna qualcosa di soldi?

Ecco, questo è il mio invito per il 2017. Va benissimo l’umanizzazione delle cure ma ogni tanto, per amor di Dio, umanizzatevi un poco anche voi. Scendete sulla terra e guardateci per quello che siamo, noi medici: persone comuni che fanno un lavoro difficile, in condizioni a volte critiche, sottraendo tempo ai propri interessi personali e alle proprie famiglie, regalando centinaia ore di lavoro all’anno che non saranno mai pagate, ritornando a casa con la schiena spezzata e il cervello in pappa, correndo in ospedale alle straore per aiutare colleghi in difficoltà, spendendo ore e ore a parlare con pazienti incattiviti o collaboratori incazzati al solo fine di garantire un servizio pubblico migliore. Persone che possono sbagliare, come tutti, ma che si portano dietro il peso degli errori fatti come una condanna inappellabile, per anni, per tutta la vita, e che ancora oggi si sorprendono quando un paziente torna in ospedale per ringraziare della diagnosi azzeccata e dire, incredulo: Lei mi ha salvato la vita.

Perché poi è questo che succede, ogni fine anno. Quando in tempi di crisi dobbiamo devolvere i nostri 1000 euro annui all’assicurazione di turno il pensiero, spontaneo, è il seguente: ma chi me lo fa fare? E se tirassi i remi in barca? Se mi limitassi al mio, che tanto non cambia nulla per il mio portafogli? Però poi, chiusa la transazione bancaria, la nostra preoccupazione corre di nuovo lì, all’ospedale, a tutte le cose nuove da cominciare e le vecchie da migliorare in questo lungo 2017 che ci attende; ed è proprio lì che ci troverete, con i nostri camici bianchi stazzonati e le borse sotto gli occhi, a qualunque ora del giorno e della notte, con la schiena spezzata e un sorriso stanco che quasi mai vi verrà negato.


La canzone della clip è “Born to run”, dall’analogo album di Bruce Sprigsteen (1975). Dove risuona in terno l’unico vero sassofono che riconosciamo come degno di memoria sempiterna, quello di Clarence Clemmons. Dello stesso album, per averne un’idea più precisa, ascoltate anche “Jungleland”, canzone di chiusura, e poi sappiatemi dire.

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