Le interviste radiologiche possibili #03: Lorenzo Bonomo

di | 27 Ottobre 2017

Ho conosciuto Lorenzo Bonomo tre volte, prima che lui si ricordasse di me.

La prima volta è stata nella primavera del 2002. Mi ero appena trasferito a Treviso ed era in corso l’ultima, epica battaglia per la presidenza della SIRM: quella tra lui e il professor Bartolozzi. Lorenzo Bonomo si presentò in un giorno di metà primavera, elegantissimo. Ci riunimmo con lui nella biblioteca e lui ci parlò brevemente del suo programma elettorale. All’epoca, radiologhino giovane giovane e tutto sommato ancora neospecialista, fu il primo contatto con una SIRM che, memore degli anni tristi di specialità, solo parlarne mi veniva la pelle d’oca.

La seconda volta fu la sera della cena di gala del congresso di Radiologia Toracica SIRM del 2013, a Verona. Ero entrato da poco nel Consiglio della Sezione ma lui non mi conosceva, non ero stato un suo allievo né prima di allora avevo mai frequentato il mondo accademico italiano. Arrivai tardi alla cena e sembrava non ci fosse posto per me: lui chiamò il cameriere, fece aggiungere una sedia accanto alla sua, costrinse gli altri commensali a stringersi e fu il mattatore della serata fino al momento in cui decise che la cena era finita, e si alzò in piedi. Perché dovete sapere che le cene, con Lorenzo Bonomo, vanno sempre a finire così: a un certo punto il Professore si alza, e la cena è finita. Avevo accanto, dall’altro lato, un valentissimo radiologo toracico. Gli dissi all’orecchio, sogghignando: Io guardo il professore e non posso non immaginarmelo vestito da cardinale. E il collega, in un soffio: Guarda che nell’ambiente lo chiamano proprio così, il Cardinale. Trasecolai.

La terza volta fu al congresso sull’Rx torace standard che la Sezione tenne a Roma, a casa sua, nel 2014. L’idea dovette piacergli proprio tanto, perché da quel momento ha cominciato a riconoscermi e a chiamarmi per nome: per lui ero diventato, probabilmente, quello del torace standard. In quella circostanza gli chiesi: Che ne dice se la intervisto e pubblico tutto sul blog? Lui rispose: Fammi avere le domande. E io: No, professore, senza domande, come se fosse una chiacchierata. Mi guardò strano, quella volta, e infatti mi ci sono voluti altri tre anni per riuscirci.

Racconto tutto questo perché Lorenzo Bonomo è un personaggio fuori dall’ordinario della Radiologia italiana. Lui è tra quelli che in Italia è riuscito a fare tutto quello che si può immaginare: cattedratico in una delle Scuole più prestigiose del paese, Consigliere nazionale e poi Presidente della SIRM. E poi è riuscito a varcare i confini nazionali e diventare il Presidente della Società Europea di Radiologia. Di questo incarico lui va fierissimo, ma ne parleremo alla fine.

Il professore mi aveva invitato a casa sua per una cena casalinga pugliese cucinata da sua moglie, e la cosa aveva lasciato di stucco quanti lo avevano saputo. E’ un onore riservato a pochi, mi dicevano con gli occhi sbarrati. Poi la moglie è dovuta correre all’improvviso in un’altra città, a occuparsi del nipotino, e la cena casalinga è saltata. Ci siamo incontrati in un ristorante, alle otto di sera. Lui era già lì, mi ha visto dalla vetrata ed è venuto fuori a chiamarmi. Elegante come quella volta della visita a Treviso: camicia bianca a righe, giacca scura, cravatta a disegni rossi e neri.

Gaddo: Buonasera, professore, come sta?

Professor Bonomo: Bene, Gaddo. E tu?

Siamo entrati nel ristorante, tutto specchi, che era già pieno di avventori. Il professore avrebbe desiderato un tavolo appartato, e invece abbiamo cenato accanto a una coppia di poche parole. L’incontro è stato combinato senza che concordassimo le domande. Così, come una chiacchierata tranquilla tra il Maestro e un allievo qualunque.

G: Io ho subito una domanda da farle.

B: Spara.

G: Ci sono medici nella sua famiglia? Voglio dire, lei è figlio d’arte?

Lorenzo Bonomo sorride e comincia a snocciolare i nomi dei parenti medici pugliesi, una collezione lunghissima. Cita anche due zii, uno ordinario di clinica medica e uno di clinica chirurgica.

G: Perché non è rimasto in Puglia a studiare, allora?

B: Tu prova a pensare a cosa sarebbe successo se io fossi rimasto a Bari a studiare. Qualunque cosa avessi realizzato nella vita, ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a dire che il merito non era il mio ma dei miei parenti.

G: E allora perché proprio Roma?

B: Perché all’epoca era stata appena fondata l’università cattolica, credo nel 1961. Era una specie di campus universitario all’americana, per essere ammessi c’era bisogno di un voto alto di diploma e poi di superare test attitudinali e un colloquio.

G: Un colloquio?

B: Certo.

Lo dico con una certa ammirazione pensando a come dovrebbe essere strutturato oggi, e invece non è, l’accesso a medicina: mi sembra assurdo che non sia previsto un test psico-attitudinale per iscriversi a una facoltà che ti porterà verso un lavoro difficile non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello psicologico. Incredibile che negli anni ’60 qualcuno ci avesse pensato, con così tanto anticipo sui tempi. Adesso invece abbiamo i test di cultura generale, come se sapere chi ha vinto Sanremo nel 1983 o quanti cerchi conta l’Inferno di Dante possa avere qualcosa a che fare con l’essere un bravo medico.

G: E poi?

B: Poi a un certo punto si è presentata anche la possibilità di studiare a Parma. Siamo andati su in auto, io e mio padre. Arrivammo di sera, la sede degli studenti era un casermone in cui avevano ricavato degli appartamenti. Bussammo alla porta e chiedemmo a qualcuno di farci vedere le stanze. Ci vennero ad aprire dei ragazzi in pigiama che stavano studiando sulle loro scrivanie, con la lampadina che pendeva sopra le loro teste. Dissi a mio padre: E’ un’altra cosa, ma va bene così.

G: Però poi è andato a Roma.

B (divertito): Si, la domanda alla Cattolica era già stata inoltrata e ci avevano detto che il responso sarebbe arrivato a mezzo posta. Avevano anche specificato che avremmo capito il risultato dallo spessore della busta: le risposte negative erano in buste sottili, quelle positive in buste più spesse che contenevano anche tutta la modulistica da compilare.

G: La sua deve essere stata bella spessa, allora.

B: Una mattina mia madre mi venne a svegliare che ancora dormivo. Lorenzo, è arrivata posta! Da lì è partito tutto.

Lorenzo Bonomo continua il racconto. Come è già accaduto con altri universitari che ho conosciuto, lui ricorda tutto: date precise, a volte l’ora degli eventi narrati, i nomi di tutti e a distanza di anni. L’espressione del suo viso, durante tutta l’intervista, mentre ricorda fatti accaduti decenni prima, cambierà poche volte. A volte sarà divertita, a volte cogitabonda, ma sempre estremamente misurata. Proverò diverse volte a farlo sbilanciare, nel corso della serata, ma lui rimarrà sempre impassibile. Se non lo è già stato sul serio, scommetto il quinto dello stipendio che Lorenzo Bonomo sarebbe un ottimo giocatore di poker. Gli racconto la storia del mio colpo di fulmine con la Radiologia: i dubbi al quinto anno su dove chiedere la tesi, la reticenza a frequentare i corsi obbligatori in reparto, l’obbligo della firma, i sintomi dell’innamoramento già all’uscita dal primo pomeriggio di frequenza. Ricordo ancora perfettamente la mia sensazione di meraviglia: Ma allora è questa la Radiologia!

G: E lei? Perché ha scelto Radiologia?

B: Non vorrei deluderti, ma io non ho avuto un colpo di fulmine come il tuo. Ho scartato diverse ipotesi prima di scegliere, anche fare il chirurgo mi sarebbe piaciuto ma poi mio zio mi dissuase, disse che era un lavoro infame. Alla fine avevo fatto la tesi in Radiologia, mio zio disse: Perché non ci provi? La radiologia è una disciplina dal grande futuro.

G: La tesi su cosa?

B (sorridendo): Sulla fluoroelettrometria, una cosa che pochi anni dopo già non esisteva più. Ero andato a chiedere una tesi rapida, che non mi impegnasse molto. Volevo finire a tutti i costi alla sessione di luglio perché tutti mi avevano detto che l’estate dopo la laurea è la più lunga della vita, e che non ne avrei mai più avuta una così.

G: E l’ha avuta?

B: Certo. La chiesi a un giovane universitario, aveva undici anni più di me. Si chiamava Pasquale Marano.

Io ho del professor Marano un ricordo, indelebile, che risale ai tempi del primo congresso sul torace standard, quello che organizzai a Treviso. Il professore era già in pensione da tempo, e immagino che accettò l’invito solo per una questione di cortesia verso alcuni dei suoi più cari suoi ex-allievi. Gli fu affidato l’incarico di aprire i lavori con una lettura: e lui ci sorprese parlando non di Radiologia ma di formazione. Che un uomo di quella età potesse avere una visione così lucida del presente e del futuro della formazione medica mi impressionò moltissimo, ne conservo ancora un ricordo molto vivido. Dopo la tesi, tuttavia, le cose non andarono benissimo. Lorenzo Bonomo fu affidato a un tutor, di cui ha evitato di fare il nome, dal quale non si sentiva seguito come lui avrebbe desiderato. Abbandonato in diagnostica da questo radiologo che ricompariva solo per portarlo in mensa, e che il pomeriggio lo redarguiva per aver fatto poche proiezioni radiografiche rispetto a quelle che avrebbe voluto, pensò di cambiare strada. Ebbe finalmente un appuntamento con un noto professore di Chirurgia Pediatrica.

G: Come andò l’incontro?

B: Guarda, un disastro. Io arrivai puntuale, la segretaria mi fece passare. Il chirurgo mi disse che avevo dieci minuti, cominciai a parlare ma lui neanche mi ascoltava. Spostava fogli, sistemava cartelle, mi diceva: parla, parla, ma stava pensando ad altro. Alla fine disse: Se solo fossi venuto la settimana scorsa ti avrei dato un posto da assistente. Nemmeno aveva capito per quale motivo fossi andato a parlargli.

G: Bella personcina.

B: Però, come tante altre volte, questa esperienza mi è servita. Gli anni seguenti, quando uno studente mi chiedeva un colloquio, sai che facevo? Mi segnavo l’appuntamento sull’agenda, mezzora o quello che era, poi quando lo studente arrivava dicevo alla segretaria di non passarmi nessuna telefonata finché non ci avesse visto uscire dallo studio. Non avrei mai voluto far passare a un ragazzo quello che avevo passato io quella volta.

Anche questa è bella, per uno come me che da studente ha dovuto fare spesso anticamera di ore, su un divano piazzato davanti alla porta del professore, senza nemmeno la certezza di essere ricevuto. Comunque sia, il Professore torna in Radiologia, parla con il dottor Marano e si fa cambiare il piano formativo. Va a Milano a imparare una tecnica nuova, l’angiografia, e la porta per primo a Roma. A Milano, incredibilmente, incontra la donna che poi sposerà: si conoscevano da bambini, l’incontro milanese fu del tutto casuale. Alla fine, quando Marano diventa professore e gli affidano la cattedra a Chieti, lui lo segue.

B: A Chieti sono stato, alla fine, più di vent’anni. Chieti è una città piccola che mi ha insegnato una cosa fondamentale: non puoi inserirti nel tessuto sociale di una città se non impari a frequentare le persone, se tua moglie non partecipa con te alla vita di ogni giorno. Quando arrivano le mogli le porte delle case si aprono come per magia, e se vanno via si richiudono.

G: Come è stata l’esperienza? Voglio dire, andar via da Roma.

B: A Chieti di radiologico non c’era nulla, all’epoca, abbiamo creato tutto da zero. E’ stata una fatica grande ma si era creato questo circolo virtuoso, questa connessione con Roma. Non è che fossimo sempre d’accordo, Marano e io. Lui quando c’era da prendere qualche decisione importante mi chiedeva sempre cosa ne pensassi. A volte avevo altre idee, lui mi ascoltava e poi diceva: Ho capito, ma si fa come dico io. E’ giusto così.

G: Poi?

B: Poi a un certo punto il professor Marano è tornato indietro, alla Cattolica, ed è toccato a me andare avanti. Ricordati sempre queste parole, Gaddo: non sono i posti a fare le persone, ma sono le persone a fare i posti.

Questa andrebbe scolpita sulle architravi di ingresso dei reparti di Radiologia, ma vabbè.

G: Però adesso ci siamo arrivati. Questa SIRM, Professore. Che mi dice?

Il Professore ha uno dei suoi sorrisi, ma questa volta mi sembra un pò amaro. Mi racconta di quando fu per la prima volta Consigliere, l’unico eletto della lista perdente, e non gli diedero nulla da fare per i quattro anni di mandato. Mi racconta della disfida con Bartolozzi, il suo tentativo di risolvere la questione senza troppi danni per nessuno, e mi fa nomi e cognomi di chi non volle sostenerlo. Ha parole di elogio per Del Favero, il Presidente che portò la carica da quattro a due anni: dice che è stato un uomo di limpidezza straordinaria.

G: Come è riuscito a lavorare per la SIRM sapendo che in tanti non l’hanno mai amata?

B: Io sono uno che dice quello che pensa, a qualcuno può non essere andato bene. Ma vedi, il problema della Radiologia italiana non è la SIRM. Tu credi che nel 2050 noi staremo ancora qui a dire ai pazienti “fermo non respiri?” No, qui sta cambiando tutto. Tu, per esempio, che ne pensi dell’intelligenza artificiale applicata alla nostra disciplina?

G: Penso che tra vent’anni rischiamo di essere sostituiti dai computer. Una volta che avremmo insegnato alle macchine a riconoscere i pattern TC del torace, per dire, il pattern cistico o quello fibrosante eccetera, un algoritmo raffinatissimo metterà insieme clinica, laboratorio, anamnesi e dati radiologici. Le macchine faranno diagnosi senza di noi, ci penserà il clinico a mettere insieme il tutto.

B: Io non ne sono così convinto, credo che l’intelligenza umana abbia ancora un margine per essere indispensabile, per riuscire a tirare le conclusioni di un caso complesso. Il problema è piuttosto un altro: le scuole di specialità italiane sono in caduta libera, non riescono più a formare professionisti adatti ai cambiamenti che ci aspettano dietro l’angolo. Il successo del tuo corso sul torace standard da dove credi che nasca? Nessuno insegna più i fondamentali della Radiologia.

G: Questo è vero, è un pò come imparare latino e greco al liceo. Non ti serviranno a nulla, nella vita, però sono indispensabili a sviluppare un metodo utile per tutti gli altri processi di apprendimento. Per me è stato così.

B: Allora è da lì che dovremmo ripartire.

G: Ma non crede che una sana competizione elettorale, come quella che lei ha avuto con Bartolozzi all’epoca, possa giovare alle sorti della SIRM? Non crede che i soci dovrebbero poter scegliere tra posizioni differenti?

B: Io credo che, alla fine, i bisogni della Radiologia italiana siano quelli di cui parlavamo prima. E’ difficile che due candidati possano esprimere, in questi anni, posizioni così radicalmente differenti.

G: Mah, io grazie al blog sento molti soci e molti altri che alla SIRM non vogliono iscriversi per partito preso. In tanti sostengono che questo sistema crea delle cordate indistruttibili, sistemi di potere che non si conciliano molto con la crescita della nostra professione.

B (con quello sguardo ironico che continuerà a regalarmi fino alla fine): Senti quest’altra cosa che ti dico. La vita è come un pendolo: non puoi fargli cambiare direzione finché non ha finito il suo arco. A quel punto la direzione cambierà da sola.

La cena si avvicina alla fine. Abbiamo fatto fuori la bottiglia di Pegorino bianco ghiacciato che il Professore ha scelto all’inizio e scelto il dolce: lui gelato nocciola pistacchio, io una madeleine al cioccolato con la crema di zabaione sopra. Decido che è arrivato il momento di sparare l’ultima cartuccia.

G: Professore, un’ultima cosa, ma prometta di essere sincero. Lei ha rimpianti?

Lorenzo Bonomo ha l’unico sussulto della serata, l’unica risposta non ponderata che butta fuori quasi in tempo reale.

B: No! Assolutamente. Io sono stato un uomo fortunato, molto fortunato. Ho avuto la fortuna di un lavoro appassionante, sono stato presidente della SIRM, ho girato il paese per congressi. Una volta, tanti anni fa, quando giravano pochi soldi, partivamo di notte e dormivamo nelle cuccette dei treni. Arrivavamo la mattina, ci facevamo la barba negli alberghi di giorno e andavamo al congresso. Mi sono divertito, Gaddo, e poi ho avuto l’onore di essere il messaggero della Radiologia europea nel mondo. Cosa potrei pretendere di più?

G: E che prezzo ha dovuto pagare per tutta questa fortuna?

B (con un’ombra di malinconia che gli passa, rapidissima, sul viso): Certo, ho avuto anche la fortuna di una famiglia che mi ha permesso di stare via da casa tanto tempo, una moglie che c’è sempre stata, che si è occupata dei figli. Ho avuto collaboratori straordinari, instancabili, sia a Chieti che a Roma. Ma il punto è un altro.

G: Quale, professore?

B: Gaddo, lo vedi questo bicchiere? C’è solo un dito di vino dentro, ma per me è sempre mezzo pieno. E’ questo che ha fatto la differenza, nella mia vita.

 

(Roma, 26 ottobre 2017)

 

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