Le interviste radiologiche possibili #1 (Torino)

di | 16 Maggio 2015

Qualcuno di voi conosce il mio sogno radiologico proibito: da amante appassionato non solo della Radiologia ma anche della sua storia, mi piacerebbe trasformarmi per un istante in giornalista e intervistare i grandi Vecchi della Radiologia italiana. Poter passare con loro un pomeriggio, qualche ora, o soltanto potergli sedere accanto a cena e scambiare due chiacchiere. Ho perduto l’occasione dell’intervista con la quale avrei voluto esordire, e che era praticamente già organizzata, per un’incomprensione che mi ha riguardato solo di sponda, tangenzialmente; e allora ho approfittato dell’occasione torinese del 16 maggio per fare un giro di prova. Ho chiacchierato tutta la sera con un cattedratico torinese in pensione e poi gli ho chiesto a bruciapelo: Posso trasformare questa chiacchierata in una specie di intervista e pubblicarla sul mio blog? Se vuole gliela faccio leggere prima. L’uomo mi ha guardato negli occhi (ha uno sguardo incredibilmente acuto, ironico) e ha risposto: No, ci mancherebbe, mi fido.

E’ così che nasce la prima puntata delle Interviste Radiologiche Possibili, che ha come protagonista il professor Cesare Fava. Il quale dichiara a tutti solennemente, ma senza convincere nessuno, di essere diventato un pensionato vero e senza più rapporti con il mondo lavorativo radiologico. Cosa vuole, dice. Io coltivo insalata, pomodori. L’anno scorso ho prodotto sessanta  cassette di kiwi. E poi faccio il nonno, quando me lo lasciano fare.

Molti dei giovani radiologi, e quasi sicuramente tutti gli attuali specializzandi, non conoscono Cesare Fava. Il quale è stato senza ombra di dubbio uno degli animatori principali della Radiologica toracica italiana degli ultimi decenni. E’ un uomo minuto, dallo sguardo ironico; uno di quegli uomini di cui puoi immaginare senza difficoltà il viso e l’espressione che avevano da bambini, quando vestivano braghe corte. Se devo farvi un esempio pratico, è più o meno così che immaginavo potesse essere dal vivo quel colosso del giornalismo che era Enzo Biagi: un uomo apparentemente semplice, mite, incapace di andare sopra le righe. Ma capace invece di grandi complessità interiori e di avere a che fare con chiunque, dai re ai senzatetto, trovando motivi di interesse in ciascuno di loro.

La prima mezzora io e il professore ci siamo annusati, come si conviene in queste circostanze: io vengo  dal nulla, non ho una storia universitaria, sono stato fuori dal giro societario fino a pochi anni fa e mi sono occupato anche di altro, non solo di torace. E l’ambiente della Radiologia toracica, visto dal di fuori, è sempre stato parecchio elitario. Poi ci siamo sciolti ed è cominciata una meravigliosa narrazione.

Gaddo: Come si sente uno dei protagonisti degli anni in cui la Radiologia è cambiata in modo così radicale?

Professore: Un’esperienza entusiasmante. Siamo partiti dalla radiologia tradizionale, avevamo poche armi a disposizione, poi a un tratto è arrivata l’ecografia, poi la tac, poi la risonanza magnetica… è stata un’orgia.

E io riesco tranquillamente a immaginare cosa deve aver significato per quei nostri colleghi degli anni ’60 e ’70 il poter accedere a informazioni che fino a quel momento erano disponibili solo per i chirurghi, e solo a costi molto alti per i pazienti. La domanda è arrivata quasi spontanea.

Gaddo: E allora perché ha scelto di specializzarsi proprio in Radiologia?

Professore: Io avrei quasi scelto ingegneria, e credo che sarei stato tutto sommato un bravo ingegnere. Pensi che all’epoca giravo con un cacciavite nella tasca del camice, poteva sempre servire a sistemare qualcosa, mentre adesso nemmeno ti ci fanno avvicinare alle apparecchiature…

Gaddo: E poi?

Professore: Poi è successo che avevo un fratello maggiore, e lui scelse ingegneria. Mio padre, che era medico, avrebbe voluto che almeno uno dei figli seguisse la sua strada, ed eccomi qua. In fondo (sorride) ho scelto la specializzazione medica che ha più a che fare con l’ingegneria.

Il Professore ha un figlio che fa il medico, perché probabilmente ogni famiglia ha il karma che si merita.

Professore: Gli ho solo consigliato di non scegliere Radiologia, perché qualunque risultato avesse raggiunto gli sarebbe rimasto addosso il marchio del nome d’arte. E lui era anche uno parecchio bravino a scuola.

Infatti, non a caso, il figlio fa il dermatologo.

Gaddo: Quanto di più lontano c’è dalla Radiologia, insomma.

Professore (ridendo di gusto): Sa cosa diceva un mio collega dermatologo che poi per motivi imperscrutabili era finito in Radiologia? Che le due discipline hanno una caratteristica in comune: vale per entrambe la regola che se non capisci subito cos’ha il paziente non lo capirai nemmeno in cento anni.

Rido anche io.

Professore: Lo dico sempre a mio figlio, la Radiologia in tanti anni è cambiata radicalmente mentre la Dermatologia è rimasta sempre la stessa. Prima usavano la lente di ingrandimento, ora usano la stessa lente, solo un po’ più sofisticata.

Ride ancora, il Prof, ma quando accenna al fatto che il figlio si occupa di onco-dermatologia un barlume di orgoglio scaturisce, inatteso, dal suo sguardo. Credo abbia ritenuto prudente la scelta del figlio di seguire una strada lavorativa diversa da quella paterna: da padre genio, figlio coglione, chiosava sempre il mio indimenticato Maestro di Radiologia. Il rischio di essere fraintesi, nel nostro ambiente, è sempre molto elevato: deve essere colpa del nostro DNA di italiani, del senso di colpa genetico di chi ha inventato il nepotismo.

Parliamo ancora un po’ di Radiologia e torniamo indietro nel tempo. Ragioniamo sulla tomosintesi, che sembra essere il futuro prossimo della Radiologia toracica convenzionale, e arriviamo alla vecchia, cara stratigrafia. Azzardo una domanda rischiosa.

Gaddo: Lei lo ha conosciuto Vallebona?

Professore: L’ho visto una volta, da lontano. Un uomo che nonostante la fama di grande innovatore era rimasto schivo, privo di arie da grande maestro. Un uomo molto colto e riservato. Nel solco della Radiologia genovese: anche uno dei suoi successori, il professore Oliva, era come lui. Quasi ieratico.

E qui comincia a raccontarmi tutta la storia segreta della stratigrafia: quattro radiologi europei, quasi in contemporanea, avevano avuto la stessa idea (ricorda i nomi di tutti, io nemmeno mi ricordo cosa ho mangiato ieri sera), solo che Vallebona aveva a disposizione un ingegnere genovese (di cui non ricordo il nome, appunto, salvo che suonava più o meno come il mago Zurlì), appassionato come lui, con il quale passava le notti in bianco per mettere a punto la prodigiosa apparecchiatura che l’avrebbe reso famoso. E non finisce qui: sull’onda dei ricordi mi narra di quella volta, molti anni prima, in cui lui e il professor Comino (seduto a cena alla sua sinistra) erano andati in missione a Modena. Il treno aveva fatto ritardo, erano arrivati nella cittadina emiliana molto tardi e temevano di non riuscire a mangiare. Dice: Noi piemontesi siam fatti così, alle nove di sera nei ristoranti già non ti servono più cibo. Ma Comino aveva con sé la Guida Michelin, abbiamo individuato un ristorante e deciso di provare lo stesso anche se erano le undici di sera. Si fanno coraggio, cercano il ristorante ma al numero civico indicato dalla guida trovano una porta senza insegne: la aprono, salgono una scalinata ripida e si ritrovano in una camerata enorme di avventori che mangiano, bevono e giocano a carte. Insomma, continua, abbiamo mangiato a sazietà e non siamo nemmeno stati gli ultimi ad arrivare nel locale. Fino alle due è continuata a entrare gente. Una vena di rimpianto, forse, in tutto quel racconto di altri tempi, con la loro incredibile austerità piemontese spersa nella gaudente terra emiliana. Ci sono volte, questo l’ho sperimentato sulla mia pelle, in cui vorresti essere nato altrove, essere figlio di altre terre. Ma per fortuna quei momenti non durano mai troppo a lungo.

Stamattina, durante la sua lettura magistrale sulla storia del radiogramma standard del torace, il professor Fava aveva ancora una volta, come ieri sera a cena, gli occhi che brillavano dall’emozione. Ripercorrere quella che lui ha chiamato “l’età dell’oro” della Radiologia toracica gli ha colorito le guance, ed era un rossore sincero come quello dei vini piemontesi di cui abbiamo parlato a lungo. A un certo punto ha parlato, cito testualmente, della sua emozione di vedere la radiografia sostituita dall’immagine digitale: e ho ripensato ancora una volta a cosa devono aver provato i radiologi nati e cresciuti in epoca analogica nel momento in cui tutto è precipitosamente cambiato, quale sensazione di onnipotenza deve averli permeati.

Ma forse il professor Fava è stato immune a questa sensazione che ha reso molti suoi colleghi invisi ai più: l’ho capito quando, mentre parlavamo di vini, mi ha spiegato la storia dell’unico bianco di relativo pregio che vanta il Piemonte, l’Arnèis.

Professore: Sa perché l’Arnèis si chiama così?

Gaddo: No, me lo dica.

Professore: Perché è un vino inaffidabile, un anno vien bene, l’altro anno è imbevibile. In dialetto noi usiamo dire, parlando di una persona poco affidabile: ma come fai a fidarti di quell’arnese, di quell’arnèis lì?

Gaddo: L’ho bevuto a Torino qualche anno fa, è un vino molto particolare, buono.

Professore: Perché adesso l’Arnèis non è più inaffidabile, i viticultori hanno finalmente trovato il modo di fregare le sue intemperanze.

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Ci siamo salutati, oggi pomeriggio, con una stretta di mano e un sorriso ironico e amaro: l’applauso interminabile e spontaneo a fine lettura potrebbe essere l’ultimo della sua lunga carriera, e lui lo sa bene. Ho ricordato il modo in cui si era palesato, quella stessa mattina, giusto in orario per la sua lettura magistrale: ancora minuto, trafelato, con un velo di sudore sulla fronte, la cravatta intorno al collo ma non ancora annodata. In quel preciso istante mi è sembrato di intuire il nerbo dell’uomo con cui avevo chiacchierato la sera prima, a cena; e ho avuto una sensazione netta, quasi didascalica. Fosse stato per lui, Cesare Fava avrebbe preferito che l’Arnèis rimanesse quel vino inaffidabile che era sempre stato, piuttosto che un bianco amabile finalmente addomesticato dagli scaltri viticultori piemontesi.

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