Le scelte difficili

di | 15 Aprile 2011

Stamattina, di turno ecografico, una nuova lezione di vita.

Faccio un’ecografia a una vecchina ottantacinquenne, un po’ stordita da una senilità poco impegnata in lavori di concetto. Alle prese con controlli oncologici per un problema risolto ormai da anni, ma effettuati con pervicace cadenza semestrale. A fine esame mi accingo a parlare con il figlio, come è mia abitudine: e lui mi sorprende.

Si siede di fronte a me e dice, più o meno, che ha un dubbio profondo. Dice che porta la mamma a fare controlli regolari da molti anni. E che più passa il tempo e più gli viene il sospetto che in questo accanimento diagnostico ci sia un errore di fondo. In fondo la mamma ha scelto una strada da cui è difficile tornare indietro: di spegnersi lentamente, senza opporre resistenza, in un luogo appartato. Non sarebbe più giusto, più onesto evitare di accanirsi con studi diagnostici così fittamente cadenzati contro una vecchina alla quale, in ogni caso, anche se la malattia tornasse, non si praticherebbe alcuna ulteriore cura? E quanto soffre il sistema sanitario di casi come quello della povera mamma?

Io lo ascoltavo stupito, pensando fra me e me che se io dovessi accanirmi allo stesso modo con mio padre sono convinto che anche da vegliardo rimbambito lui troverebbe l’energia e la lucidità per prendermi a calci nel culo. E che io farei lo stesso con il mio, di figlio. Ma soprattutto lo ascoltavo ammirato: perché quelle riflessioni così cinicamente lucide in realtà non erano ciniche, ma nervate di affetto e  riverenza. Perchè, e ne sono fortemente convinto, chi ha vissuto con dignità ha il diritto di morire con la schiena diritta. Non come quel personaggio della Allende, che voleva essere sepolto in una bara verticale per poter guardare Nomeniddio negli occhi al momento del giudizio finale, ma quasi.

Il che mi riporta al programma che ho seguito martedì sera su La7, NdP. E all’intervista che il brillante giornalista ha condotto a due redivivi della politica anni ’80, prima di Mani Pulite, ossia Gianni De Michelis e Paolo Cirino Pomicino.  143 anni in due (di età anagrafica, non di carcere). E dall’alto dei 143 anni, praticamente una unità d’Italia intera, le parole indimenticabili del secondo: che con ghigno furbetto e ostentata sicumera, dopo una formidabile disamina politica che ha lasciato esterrefatte le anime semplici come me (che qualcosa del periodo storico in cui scorrazzavano impuniti per la penisola  ancora se la ricordano, perché tanto giovani più non sono), ha affermato che sta lavorando a un “nuovo progetto politico”.

Ed ecco il paradosso straziante, lo strappo generazionale dell’Italia del centocinquantenario. Ecco la radice dei nostri mali, il cappio che ci impicca, il cuscino che ci soffoca. Il fucile puntato al petto dei quarantenni italiani di oggi, e per giunta dai loro padri.

Da piccolo ricordo che i miei tenevano in terrazzo una piccola voliera con qualche canarino colorato. I canarini erano accoppiati e quindi, a Dio piacendo, oltre a cantare si riproducevano a intervalli regolari. E nonostante la residenza coatta in gabbia, i due genitori dopo aver sfamato i piccoli e viste spuntare le prime penne sui corpicini glabri a un certo punto li spingevano fuori dal nido. Con una certa decisione, a volte, se il piccolo recalcitrava.

In Italia invece non solo i genitori non insegnano ai figli a volare, ma chiudono a chiave il nido e si mettono a fare evoluzioni pirotecniche nella voliera fino a che li stronca la natura: il che, devo dire per esperienza, avviene con sempre maggiore ritardo. E i figli restano a guardare questo indecoroso spettacolo dei genitori-pavoni che si rifiutano di rispettare l’ordine naturale delle cose, di far posto alle generazioni future dopo avergli insegnato il mestiere di vivere, e di capire che se non si lascia spazio ai figli il loro orgoglio forse ne trarrà giovamento, e dico forse, ma la struttura sociale è destinata a crollare miseramente.  Come sta accadendo oggi.

Quindi: da una parte un figlio giudizioso che si pone il problema dell’accanimento diagnostico e terapeutico verso una vecchia madre che si incammina al tramonto; dall’altra un anziano signore che ha già avuto la sua grande occasione, l’ha fallita miseramente e invece di ritirarsi a vita privata, e occuparsi delle faccende di cui si occupano solitamente gli anziani signori (per esempio coltivare un orticello con i nipoti), coltiva ancora smanie di costruzione. E va da sè: per ogni settantenne che coltiva simili smanie di costruzione c’è un quarantenne che, suo malgrado, non potrà mai costruire nulla.

A volte penso che la colpa sia un po’ anche la nostra (dei quarantenni di oggi, intendo): perché avremmo dovuto praticarlo noi, con le nostre mani, quel parricidio rituale che le generazioni precedenti si sono risparmiate perché a praticarlo era la natura stessa. E invece siamo qui, fermi, in stolida attesa.

E poi ci stupiamo perché il nonno va in televisione e dice di voler ricostituire la democrazia cristiana.

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